Cerca

logo
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
25/03/2025
Live Report
Ryan Adams, 24/03/2025, Teatro Dal Verme, Milano
Ryan Adams arriva al Teatro Dal Verme di Milano per tre ore di serata tra performance alla chitarra e al pianoforte, aneddoti, flussi di coscienza e incursioni dei fan, per quello che lui stesso ha definito "il concerto più bello del tour, per ora!”. Se volete sapere com'è andata veramente, non avete che da leggere il report.

Con Ryan Adams avevo un conto in sospeso da quando, due anni fa, con il biglietto già in tasca per vederlo a Parigi, fui costretto a rinunciare causa spostamento del volo all’ultimo minuto. Per fortuna, a distanza di sette anni dall’ultima volta, l’artista del North Carolina ha deciso di tornare a farci visita, e così sono riuscito a recuperare un concerto che davo ormai perduto per sempre.

La formula è sempre quella in solo acustico a cui ci ha abituato negli ultimi tempi: con l’eccezione di alcuni show in America in compagnia dei resuscitati Cardinals, ormai Ryan gira sempre in solitaria. Che siano residui di quell’ostracismo calato su di lui a seguito delle accuse di molestie (poi rivelatesi fasulle o comunque da non luogo a procedere) lanciate dall’ex moglie Mandy Moore, che hanno inferto una pesante battuta d’arresto alla sua carriera, o piuttosto una decisione presa sull’onda dei costi sempre crescenti che l’andamento in tour si porta dietro, sembra che ormai tornare indietro sia difficile.

A questo giro c’è un pretesto in più: l’anniversario del fortunato esordio Heartbreaker, tuttora tra gli episodi più celebrati della sua discografia, giunto ormai al venticinquesimo anno di età, in corrispondenza del cinquantesimo compleanno del suo autore (particolare che non mancherà di far presente durante la serata, non senza un non so che di cinica ironia).

 

Il Ryan Adams di questi ultimi tempi ha vissuto tra alti e bassi, a metà tra bulimia creativa e confusione mentale: da Wednesdays in avanti (per chi scrive disco bellissimo, colpo di coda inaspettato di una carriera che sembrava procedere un po’ col pilota automatico) si sono susseguiti una serie infinita di lavori, spesso più di uno all’anno, prodotti malino, confezionati in fretta e furia, quasi mai a fuoco dal punto di vista progettuale, con l’impressione che l’importante fosse buttar fuori brani per dimostrare agli altri la propria esistenza.

Aggiungiamoci la serie mensile di cover, gli album rifatti per intero (da Blood on the Tracks di Dylan a What’s the Story Morning Glory degli Oasis), i dischi live (uno di questi è il rifacimento dell’intero Prisoner) e si avrà l’idea di un autore che da una parte ha fatto senza dubbio la felicità dei fan più accaniti e completisti, ma che dall’altra avrebbe potuto selezionare meglio il materiale al fine di preservarne al meglio la qualità (leggi, in tutta questa mole di roba ce n’è fin troppa di superflua).

Nel corso della serata milanese ha dato una sua personale spiegazione di questa febbre creativa: durante uno dei suoi lunghi monologhi, scagliandosi contro la Universal che, se non ho capito male, detiene ancora tutti i diritti sui vecchi dischi, ha detto che ora, da quando pubblica autonomamente, non si è mai sentito così libero. E oltretutto, ha detto, arrivano pure i risultati: e qui ha citato il caso dell’ultimo Another Wednesdays, registrato quasi per caso e giunto fino alla ventesima posizione delle classifiche di vendita (un dato che andrebbe confermato ma tant’è, ci fidiamo).

 

Quindi, decidete voi da che parte prendere tutto questo: chi ama Ryan Adams, dopotutto, è abituato a questi sbalzi, a questa mancanza di linearità, perché l’uomo di Jacksonville, a ben vedere, è sempre stato questo sin dall’inizio, siano state le droghe di cui per più fasi ha abusato (ha parlato molto anche di questo, ieri sera) o più semplicemente il suo temperamento estroso e senza freni.

Quando sale sul palco del Teatro Dal Verme, ad ogni modo, appare un uomo finalmente in pace con se stesso: impeccabile in un inedito look con giacca, pantaloni e papillon, capelli corti e ordinati, occhiali da vista che toglie non appena si siede e imbraccia la chitarra, risponde alle ovazioni del pubblico con l’aria di chi non vorrebbe fare altro che trovarsi lì.

Che abbia lavorato molto su di sé lo si capisce ancora di più nel prosieguo, quando interrompe un brano per redarguire l’immancabile spettatore seduto in prima fila che guardava il telefonino. Quello che avrebbe potuto trasformarsi in uno scazzo memorabile (chi c’era al Vittoriale l’ultima volta se lo ricorderà) finisce invece con il malcapitato invitato sul palco per un selfie da inviare alla moglie. O ancora, quando si accorge che dalla platea qualcuno ha scattato una foto con il flash (azione proibitissima, indicata da mille cartelli e ricordata anche dalle maschere all’entrata) cerca di individuarlo ma, dice, semplicemente per rinconciliarsi con lui.

 

Certo, il fastidioso protagonismo dei presenti purtroppo non aiuta. Ricordo un ottimo intervento di Federico Guglielmi su Blow Up, all’indomani del famoso litigio di Morgan con gli spettatori di un suo recital su Battiato in Sicilia: la tesi era che, fatto salvo che l’ex Bluvertigo avrebbe dovuto essere più misurato nella sua reazione, il pubblico dei concerti è oggettivamente divenuto insopportabile, con il suo pretendere sempre e comunque di essere al centro dell’attenzione, non badando a ciò che sta succedendo attorno a lui.

Francamente, quando ieri sera una ragazza gli ha interrotto bruscamente un monologo per urlargli che aveva con sé un cartello da fargli leggere (una cosa del tipo che suo marito amava la sua musica più di quanto amasse lei; per la cronaca, il marito era presente), sarebbe stato più che lecito risponderle male o addirittura invitarla a lasciare la sala. Bene, che cosa ha fatto il nostro eroe? Non solo le ha dato retta per più di cinque minuti (io personalmente ero esasperato ma la totalità dei presenti sembrava deliziata, quindi probabilmente non ho capito qualcosa) ma si è pure seduto al pianoforte per improvvisare su due piedi una canzone su di loro (e si è trattato pure di un brano abbastanza riuscito, viene il sospetto che anche i suoi ultimi dischi siano nati in questo modo)!

Una scena simile accade nella seconda parte del concerto (che è organizzato su due set intervallati da una pausa di circa quindici minuti) quando, dopo che qualcuno ha richiesto a gran voce “Lucky Now”, finge di non sapere di che cosa si tratti e si mette a suonare sulla chitarra un brano dallo stesso titolo, ma evidentemente inventato sul momento. Pochi istanti dopo, ha un breve scambio con uno spettatore in prima fila, che evidentemente si era proposto per suonare proprio il brano in questione. Ryan accetta, lo invita sul palco, gli consegna una delle sue chitarre, lo fa sistemare al suo posto, mentre lui se ne sta defilato allo sgabello del piano, limitandosi ad armonizzare le seconde voci. Lo spettatore si rivela poi essere Simone Bertanza, giovane cantautore bresciano con all’attivo un EP ed un paio di singoli, per cui la versione di “Lucky Now” che ne esce è assolutamente superba, tanto da deliziare lo stesso Adams (che al termine lo abbraccia, sinceramente colpito) ed il suo tecnico di palco, anche lui ad applaudire entusiasta.

Due episodi totalmente diversi, una mezza cafonata il primo, una richiesta umile ed educata quella del secondo (che peraltro si è preso il suo spazio in maniera discreta e quasi timida) ma quel che colpisce è la reazione dell’oggetto di questi richiami: se anni fa li avrebbe probabilmente picchiati tutti (e avrebbe forse anche sospeso il concerto, di fronte alla marea di richieste sguaiate che sono arrivate nella seconda parte) adesso si è mostrato disponibile ed ultra comprensivo, tanto da esclamare, mentre si preparava all’improvvisato duetto: “Questo è indubbiamente il concerto più bello del tour, per ora!”.

 

Se mi sono dilungato su questi aspetti apparentemente secondari, è solo perché risulta impossibile parlare di Ryan Adams senza tenere conto della sua particolare psicologia e di questo suo temperamento instabile. Parlando di musica, per fortuna le cose hanno sempre funzionato benissimo e ancora funzionano: stiamo parlando di un performer eccezionale, che non ha bisogno di avere per forza di cose la band a guardargli le spalle e che riesce a tirare fuori versioni meravigliose avendo a disposizione solamente la sua voce e una chitarra acustica (alcuni pezzi sono invece suonati al pianoforte).

Se dunque può succedere che si perda via tra un brano e l’altro, raccontando aneddoti e lasciandosi andare a flussi di coscienza non sempre comprensibili (mettici l’accento stretto o il vizio di parlare lontano dal microfono) che allungano la serata a dismisura (tre ore in tutto compresa la pausa tra un set e l’altro), sul piano meramente esecutivo non gli si può davvero dire nulla.

Il concerto è dunque superlativo, con la prima parte incentrata su Heartbreaker, suonato quasi per intero, da una “To Be Young (Is to Be Sad, Is to Be High)” dal sapore blueseggiante, fino ad una movimentata “Sweet Lil’ Gal”; in mezzo, le sempre emozionanti “My Winding Wheel”, “Amy”, il mega classico “Oh My Sweet Carolina”, le melodie intrise di sofferenza di “Don’t Ask for the Water” e “In My Time of Need”. Plettrata precisa, interpretazione vocale magnifica, in queste versioni scarne il disco rivive in tutta la sua fragile trasparenza, il suo fascino intatto, semmai addirittura potenziato.

 

Dopo l’intervallo torna sul palco al grido di “Finalmente posso suonare quello che voglio!” (una battuta fino ad un certo punto, visto che nel corso della serata ha più volte fatto presente che eseguire quei brani rappresenta per lui una sofferenza costante) ed ecco partire subito la ridda delle richieste, comprensibile da un certo punto di vista, ma anche tremendamente fastidiosa, con la solita impressione che in molti, più che essersi recati a veder suonare il proprio artista preferito, siano lì unicamente nella speranza che lui si accorga di loro.

È dunque una fortuna che il diretto interessato fermi sul nascere questo vociare confuso e dica semplicemente: “Lo chef sono io! Fidatevi! Qualunque cosa uscirà da questa cucina, sarà buono!”.

Ed effettivamente andrà così: “Ashes & Fire”, “Two”, “Dear Chicago” sono classici eseguiti con delicatezza e passione; poi un’incursione nelle profondità della tradizione americana, con “Lovesick Blues” di Elsie Clark ed una “I’m So Lonesome I Could Cry” suonata interamente facendo su e giù lungo la platea, senza microfoni e con la sensazione che fosse il suo modo per arrivare ancora più a stretto contatto col pubblico.

Molto belle anche le versioni di “Everybody Knows” e “Gimme Something Good” (quest’ultima decisamente stravolta rispetto all’originale), anche se la vera perla, quella che da sola vale il prezzo del biglietto, è “Idiot Wind”, scovata dopo lunghi minuti ad armeggiare col quadernone dei testi (minuti durante i quali i presenti sono tornati agguerriti sulle richieste), suonata con una chitarra al limite della scordatura, cantata con voce sgraziata ma densa di una drammaticità pericolosamente vicina a quella del suo autore originale.

 

Sembrava finita (anche perché l’impressione di poco prima è che stesse cercando qualcosa con cui congedarsi) ma in realtà la voglia di suonare è tanta e allora, nonostante l’ora tarda, ecco arrivare ancora tre pezzi da novanta: “New York, New York” (al piano, che assume un’aurea di piacevole nostalgia), “When the Stars Go Blue” (commovente) e una “Come Pick Me Up” lasciata fuori dal primo set, che da sola ha riassunto tutta l’intensità di un concerto magnifico.

I puristi potranno dire che avrebbe dovuto parlare di meno, che l’insieme è stato troppo sfilacciato, e senza dubbio è vero. Ryan Adams, però, è fatto così ed un suo concerto, in fin dei conti, è bello anche per questo.

Ne auspichiamo il ritorno al più presto, considerato che si è trovato così bene da noi…

 

 

Photo credits: Luca Dai