Ci sono band che, pur non desiderandolo mai esplicitamente, si ritrovano loro malgrado ad avere un target ben preciso: il collega di lavoro sedicente appassionato di musica che ti consiglia i suoi cinque-album-indie-da-ascoltare-assolutamente (tra cui Babel), l’amica che dice di aver scoperto il folk grazie a Sigh No More e ora sogna di fare un viaggio spirituale in Islanda, il figlio di un amico di famiglia che sai che ha fatto il Cammino di Santiago ascoltando “I Will Wait”. A cavallo degli anni Dieci, i Mumford & Sons sono stati questa band. Anzi, sono stati la band che ha portato il folk revival nei centri commerciali e nelle feste di laurea.
Poi è successo l’inevitabile. Inizialmente erano ovunque, tra film e serie tv (in un certo senso hanno ispirando A proposito di Davis dei fratelli Coen, per esempio), poi tutti hanno iniziato a imitarli, finché non si sono create direttamente delle copie carbone (The Lumineers). Infine, come i Coldplay prima di loro, hanno iniziato ad odiali. Troppo figli-di-papà per essere autentici, troppo furbi per essere presi sul serio, troppo attenti a scrivere hit da classifica per sembrare genuini. L’uscita di Babel nel 2012 è stata la fine della luna di miele con i critici: i fighetti dell’alternative li hanno liquidati come venduti, mentre gli integralisti del folk li hanno trattati come una truffa su larga scala.
Nel tentativo di smarcarsi, i Mumford & Sons hanno abbandonato il banjo e hanno chiamato in studio James Ford e Aaron Dessner dei The National, ma con Wilder Mind (2015) più che rifare gli U2 di Achtung Baby (il modello dichiarato) sono sembrati una brutta copia dei Kings of Leon. Non contenti, tre anni dopo ci hanno riprovato con Paul Epworth, quello di Adele, ma con Delta (2018) è andata ancora peggio.
Ora, dopo sette anni di silenzio e la buona parentesi solista di Marcus Mumford (Self-Titled del 2022, prodotto da Blake Mills, a conferma che i produttori di serie A fanno a gara per lavorare con loro), arriva Rushmere, un album che negli intenti dovrebbe riportare la band a casa, agli esordi di Sigh No More (il titolo, infatti, prende il nome da uno stagno situato a Wimbledon Common, a Londra, dove il gruppo si è formato e dove è stata concepita la musica, registrata poi nel glorioso RCA Studio A di Nashville), ma che invece suona come un nuovo album solista di Marcus Mumford con la scritta “Mumford & Sons” sopra.
Per produrre Rushmere, la band ha chiamato Dave Cobb, un nome che evoca immediatamente chitarre acustiche e autenticità, ed è un vero e proprio punto di riferimento per quanto riguarda la musica roots degli anni 2010. Dopo aver ridefinito il country e l’americana con una tripletta di dischi incredibili (Traveller di Chris Stapleton, Southeastern di Jason Isbell e Metamodern Sounds in Country Music di Sturgill Simpson), ultimamente Cobb sembra aver deciso ad ampliare i suoi orizzonti, lavorando con artisti diversissimi tra loro, dai Take That a Slash, da Zayn Malik ai Greta Van Fleet, con alterni risultati (a riprova che anche un grande produttore come lui può prendere delle cantonate).
In questa roulette di collaborazioni, i Mumford & Sons si posizionano a metà strada, tra il Cobb-produttore-roots e il Cobb-produttore-mainstream. Il risultato è un album pulito, elegante, con canzoni che funzionano e che si lasciano ascoltare. Ma il problema è un altro: dov’è la band? Fin dalle prime note del disco, infatti, la sensazione è che questo sia il secondo disco solista di Marcus Mumford, con i “Sons” Ted Dwane (basso, contrabbasso) e Ben Lowett (piano, tastiere) che sembrano essere più una nota a piè di pagina che una presenza reale.
L’album si apre con “Malibu”, un pezzo che cerca di bilanciare introspezione e ariosità, costruito su una melodia che richiama i momenti migliori della band. Ma è con la title track “Rushmere” che le intenzioni dell’album diventano più chiare: un pezzo che sembra guardarsi indietro con malinconia, evocando immagini di giovinezza e sogni mai realizzati (e il banjo – qui suonato da Matt Menefee dei Mountain Heart – ritorna con prepotenza).
La conclusiva “Carry On” è un altro momento chiave: Marcus Mumford affronta il tema della resilienza con un approccio quasi spirituale, mentre “Truth” porta un’energia più rock, con chitarre elettriche più marcate e una struttura più decisa. A livello tematico, Rushmere oscilla tra il pentimento e la giustificazione: come nel suo disco solista, Marcus riflette sul passato, sugli errori, sulle scelte fatte, ma senza mai cadere nel melodramma eccessivo.
A conti fatti, è impossibile voler male a Marcus Mumford – anzi, è molto benvoluto dai suoi colleghi. Il suo disco solista è infarcito di ospiti (Clairo, Phoebe Bridges), ha collaborato con Elvis Costello, Jim James dei My Morning Jacket e Rhiannon Giddens nel progetto Lost on the River: The New Basement Tapes prodotto da T-Bone Burnett, è nel giro delle Joni Jam (il gruppo di musicisti che accompagna Joni Mitcell nelle sue sporadiche esibizioni live) con Brandi Carlile, i Dawes e le Lucius, ma questa sua reputazione non lo salva dal destino di essere perennemente un po’ fuori posto. Ora, con Rushmere, si ha la sensazione che voglia trovare una sintesi tra i suoi vari mondi, senza però riuscire del tutto nell’impresa.
Alla fine, chi odierà questo album? La risposta è molto semplice: tutti quelli che già odiavano i Mumford & Sons. I critici continueranno a considerarli “musica per la classe media bianca che vuole sentirsi alternativa”, i puristi del folk non li riabiliteranno e i fan di Wilder Mind e Delta (ammesso che esistano) probabilmente rimarranno delusi dal ritorno a un sound più organico. Ma chi li ascoltava dieci anni fa, e magari oggi ha smesso di preoccuparsi di cosa sia “cool” e cosa no, probabilmente apprezzerà. Perché alla fine Rushmere è esattamente quello che dovrebbe essere: un album di 40 minuti ben scritto, ben suonato e ben prodotto. Non finirà in nessuna classifica dei migliori album del 2025, ma sarà ascoltato da milioni di persone. E a volte, nella musica, questa è l’unica cosa che conta.