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REVIEWSLE RECENSIONI
10/01/2025
Sons of Silver
Runaway Emotions
Lo chiamano rock alternativo ma in realtà i losangelini Sons Of Silver sono un’entità rock a trecentosessanta gradi, che ingloba quarant’anni di musica e cerca di offrire un approccio diverso e maturo, ma sempre ancorato a un concetto di ribellione che non deve mai mancare. Runaway Emotions è il primo album sulla lunga distanza, ma non parliamo certo di assoluti esordienti, tutt’altro.
di Iputrap

"Adoriamo tutti uscire insieme. Probabilmente passiamo più tempo a parlare di politica, sport, cibo, famiglia o qualsiasi altra cosa che a fare musica. Tutti questi interessi, tutte quelle conversazioni, si fanno strada nella musica. Le canzoni sono un'istantanea nel tempo di qualunque cosa sia accaduta essere nella nostra mente. Ci sono un po' di commedia e un po' di tragedia; un po' di dissonanza e un po' di armonia; un po' di nostalgia e un po' di abbandono; ancora di più, il fatto che possiamo parlare di qualsiasi cosa si traduce in un'atmosfera molto confortevole e di supporto ambiente musicale. Tutti si sentono liberi con qualsiasi proposta e nessuno ritiene che un'idea sia sacra. Siamo tutti abbastanza bravi per guidare la band, ma nessuno di noi è abbastanza bravo per essere la band. Concediamo spazio e tempo l'uno all'altro per trovare la nostra strada, da condividere poi insieme.”

(Peter Argyropoulos)

 

Il rock e i suoi fantasmi si ripropongono in poma magna, grazie a questa “nuova” band statunitense che esiste da qualche anno e di certo non possiamo definire come inesperta o esordiente, dato che il leader Peter Argyropoulos, meglio conosciuto con il nome d'arte Pete RG, è un cantautore e produttore che dopo essere stato il cantante e autore principale dei Last December, ha intrapreso la carriera da solista. Da allora ha registrato e pubblicato un LP e due EP.  È anche il fondatore della casa discografica indipendente 4L Entertainment.

Adam Kury è il bassista dei Candlebox (un debutto fulminante nel 1993 e derivativo dal grunge, mai ripetuto) dal 2007, mentre il chitarrista Kevin Haaland ha suonato negli Skillet e il batterista Marc Slutsky, è stato in tour e ha registrato con molte band e artisti, dai Third Eye Blind e Goo Goo Dolls a Peter Murphy e Todd Rundgren. Dulcis in fundo, alle tastiere abbiamo Brina Kabler, ingegnere del suono e produttrice.

Potremo definirlo un “supergruppo” come andava di moda qualche anno fa, o comunque una combriccola di musicisti stagionati che ha deciso di mettere insieme tutte le varie esperienze accumulate in decenni di carriera per creare qualcosa di diverso e condiviso.

 

La band si fa le ossa negli anni del Covid e post pandemia grazie a un paio di EP apprezzati, ma è questo Runaway Emotions la vera prova del nove, unita a diversi tour de force dal vivo, come il recente a supporto di Myles Kennedy, tanto per volare bassi. Anche la critica americana si concede pomposi paroloni a supporto di questo quintetto che ha anche già una solida fan base.

In poche parole, questo debutto non potrebbe essere un fallimento nemmeno a volerlo, ma alla fine è solo l’ascolto dell’album a dire la verità più sacra, in un’era dove il contenitore spesso ha più valore del contenuto, e fatemelo dire anche se potrei apparire come un boomer nostalgico e amante dell’analogico in un mondo sempre più digitalizzato.

Autoprodotto dal gruppo, il disco è stato mixato dal famoso produttore/ingegnere inglese Tim Palmer, i cui crediti includono Robert Plant, David Bowie, Tears for Fears, The Cure, Bon Jovi, Ozzy Osbourne e U2.

 

Lasciando da parte le mie idee asburgiche e altre amenità filosofiche irrisolvibili, quello che rimane è una raccolta di undici tracce che suonano ruggenti e vivide come da copione, ma anche di una band che rifiuta le definizioni e si muove fluidamente nella storia del rock degli ultimi cinquant’anni, non rifiutando nessuna influenza utile. L’effetto può risultare un po' spiazzante ma funziona perché le canzoni sono valide e ben costruite.

La band è assolutamente solida e compatta e ci mancherebbe, anche se a volte le tastiere possono risultare quasi ridondanti o non necessarie, a parte nella ballad finale “Friends”, del tutto costruita su una atmosfera intima e pianistica che emoziona ma va un po' a cozzare con il resto del materiale proposto.

Forse l’unico limite attuale del gruppo è ancora questo: se prese singolarmente, tutte le tracce del disco sono interessanti ma un po' slegate tra loro, tra una “Running” che ricorda un’evoluzione moderna di Springsteen e il bubblegum pop rock di “Baby Hang On” molto T. Rex, oppure il post grunge notturno di “Ghosts”. Una proposta sonora fin troppa variegata per una band di talento ma ancora alla ricerca della sua identità.