Il discorso potrebbe essere sintetizzabile in qualche riga per il netto contrasto tra due mondi, uno evidentemente bello e l’altro inspiegabilmente vago e sospeso, che si spalleggiano e strizzano l’occhio durante tutto l’ascolto salvo a volte fare a spallate tra di loro e lasciarti da solo in quella sospensione che non sa proprio di totale volontà di esser messi lì con consapevolezza dall’autore, ma più di un ritrovarcisi per una somma delle parti che talvolta si scontrano e annullano.
Ma non sarebbe forse così giusto nei confronti di un lavoro minuzioso e con dei picchi altissimi. Quindi mi dilungo un attimo per introdurvi nei trattini chiari, nitidi e di sicurezza di questo percorso.
Partiamo dalla certezza: 15 musicisti di uno spessore debordante, superlativo, un’orchestra perfettamente inserita, una produzione, co-gestita da Dave Harrington, che trabocca di soluzioni giuste, che ti fa venire voglia di fare un disco anche a te, che ispira soltanto parole positive, sempre equilibrata e tenuta saldamente in mano anche nei frequenti ed innovativi momenti di schizofrenia sonora. E chiaramente in quest’elenco non dimentichiamo lo studio Figure 8 di Brooklyn dove la parte strumentale è stata registrata. Delle certezze che rappresentano uno scoglio difficile da smentire anche per i più critici, degli intrecci sonori che riescono a sposare il tribalismo ritmico e soul di David Byrne, l’acidità distorta di certi colori di Saint Vincent, con un altro tribalismo, stavolta più mediorientale e desertico, tanto da gettarti nelle trame cinematografiche più impensabili, da Babel a Traffic ed a quei colori sabbiosi tanto decadenti quanto ospitali nella loro ampiezza. Tutti luoghi in cui ti riporta quel “I’m not made of stone” iniziale poggiato su una corda che non si capisce se sia sintetica o vera mentre salgono i suoni orchestrali, fiabeschi e viene ingoiata in un mondo che tanta è la sua improvvisa sortita che sembra assemblato casualmente. (01_Hear it now)
Pare che le voci siano state registrate in maniera itinerante nei luoghi che di volta in volta Nick reputasse giusti per le musiche che aveva in tasca; quindi con microfono e registratore sono stati immortalati ambienti insoliti come salotti della nonna, una casa dedita ad alloggio vacanze, spazi, case o studi scelti a New York o Tokyo, il tutto sotto l’effetto delle letture di Joseph Campbell e delle relative riflessioni liriche che ne sono scaturite. Quanto di meglio per aprirsi a riflessioni forti e imponenti, che l'autore ha vissuto sulla propria pelle ed ha tradotto in parole e trame sonore. Questo è un punto importante.
La vocalità di Nick ci porta ad un senso di pulizia, un talento cristallino, fin troppo tirato a lucido che si appoggia sui ricordi di James Blake o quando va peggio risente paradossalmente (per pura ed evidente supremazia di fama) della somiglianza timbrica con Chris Martin dei Coldplay, che sposta, senza volerlo verso i cattivi ricordi delle fusioni forzate di quel timbro dolce (sì, il solito di “A rush of blood to the head”…) con gli esperimenti caraibici di “Clock” in versione salsa. Non è colpa di nessuno, ma questo senso stucchevole mi è piombato addosso in certi momenti dell’album e non ho fatto niente per catturarli o toglierli, lì sono stati, con me che mi lasciavo intontire dalla profondità sonora di tutto ciò che stava intorno.
Il disco è immerso in tutto questo, è tanto variegato e cosparso di sapori che si legano tra di loro con una maestria che è stupefacente tanto sono nell’apparenza distanti alla matrice; perché questo è il punto di convergenza saldo, la qualità sonora, la scelta accurata di suoni forti, apparentemente spigolosi ma domati con la necessaria sapienza.
Penso alla sporca chitarra elettrica di ricamo di (02_Sunlight) che si presenta con le sembianze di un sacrilegio salvo poi prendere il sopravvento nell’unica maniera possibile, quella giusta, e il basso spento e leggermente anni novanta, con quella scura quinta corda grave che emerge di tanto in tanto (01_Hear it now), quella cassa nasale e appuntita che non si sa come tenga gli accenti giusti di un mondo acustico e orchestrale (05_Some people).
Il connubio tra sporcizia sonora elettrica e tribale è un punto di forza altissimo del disco e lo dimostra in tutta la sua forza in diversi episodi (01_Hear it now//02_Harry takes drugs on the weekend//06_Yeah I care).
Ma i punti che stanno in piedi orgogliosamente nella loro interezza e completezza sono altri, anzi un altro ed arriva quando ti stai abituando all’idea che il disco abbia già detto tutto: penso all'intensa (10_Believe me) con quel piano largo e sporcato quanto basta per farlo stare in questo mondo, dove il giusto reverbero sullo sfondo la fa da padrone quanto chi sta in prima linea; ed in questo episodio Nick Murphy è superlativo, con delle scelte melodiche che calzano alla perfezione sugli accordi davvero ben scritti del brano, così come con le scelta di produzione di distruggere la voce, la base, portarli avanti nel tempo e nello spazio, lasciarci respirare un po’ di Odissea (sì, nello spazio) e abbandonarci stremati a terra per la pienezza di questo flusso.
Ecco che col punto più alto automaticamente si scoprono i punti più bassi. E se il resto del disco fa parte dei punti più bassi, pur in tutta la sua forma maestosa con cui ve l’ho presentato, mi chiedo perché e guardo cosa sia successo, quale sia l’ingrediente che fa la differenza nelle due direzioni contrarie; credo che sia la maniera in cui Nick Murphy ed il suo timbro dolce e delicato si sposino con quei momenti più tribali, innovativi, all’avanguardia, roba strumentalmente da stropicciarsi le orecchie, che fanno da bandiera sonora di tutto il resto del disco.
Sembra quasi che in “Run Fast Sleep Naked” manchi il calore vocale, la sicurezza indotta nell’ascoltatore di comunicargli, in tutti i viaggi sonori di questo album e nei frequenti cambi di paesaggio “Tranquillo, siamo sempre qui e ci sono io con le mie parole e la mia voce”, come comunica invece nelle più intime ultime due tracce del disco, la già citata “Believe me” e la conclusiva “Message you at midnight”.
Insomma risulta pericolosamente vero quel “We’re far from home, but I’m feeling what I’m supposed to feel”, con la particolarità che oltre l’apprezzamento del mondo desertico, non mi sono sentito compreso in questa cognizione di luogo che esprime Nick Murphy.
Aggiungo che i momenti più pop, soul (perché questa alla fine è la sonorità cui si riconduce quel mondo più sporco e ballabile), frequenti ed al primo ascolto travolgenti, non contengono quella stoccata finale che li piazzino nella memoria e li rendano invincibili: alle lunghe non stordiscono.
E tutto quel perfetto paesaggio sonoro, di un disco di altissimo livello prodotto meravigliosamente, risulta, nella più cattiva delle sensazioni, inutile. Rimane la voglia di ricercarsi quei momenti di picco strumentale e di stravolgimento ritmico o la perla “Believe me”, dove tutto, anche se per troppo poco, pare aver trovato il proprio posto affinché non ci si senta troppo soli nell’ascolto di un disco.