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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
26/11/2017
Tears For Fears
Rule The World The Greatest Hits
I Tears For Fears hanno pubblicato il 10 novembre di quest’anno Rule The World, ennesimo greatest hits, contenente sedici canzoni. E' l'occasione per ripercorrere la carriera della band, iniziata nel lontano 1980.

Originari di Bath, centro termale della contea di Somerset, Roland Orzabal e Curt Smith, danno vita da giovanissimi ai Graduate, gruppo di mod revival (vedi Jam), che nel 1980 piazza un singolo, Acting My Age, nella top 100 britannica. I Graduate però rappresentano solo un trampolino di lancio per il duo, che ha in testa tutta un’altra musica. Orzabal e Smith si sentono maggiormente attratti dal post punk e da quelle nuove sonorità elettroniche che stanno marcando la nascente epoca del synth pop e della new wave. Abbandonati alla loro sorte gli altri componenti dei Graduate, i nostri eroi formano un nuovo gruppo, The History of Headaches, a cui quasi subito cambiano nome in Tears For Fears, ispirandosi a un trattamento psicoterapeutico inventato dallo psicologo Arthur Janov. Orzabal e Smith hanno le idee ben chiare: fondere il rock sixties di matrice beatlesiana con il pop, l’elettronica e una punta di soul e di psichedelia. Grazie al produttore Dave Bates vengono messi sotto contratto dalla Phonogram Records, che nel 1981 pubblica il loro primo 45 giri, Suffer The Children. Dopo altri due singoli di successo, Pale Shelter (1982) e Mad World (1983), esce il loro primo full lenght, The Hurting (1983). Se è vero che fin dai primi ascolti si capisce che Orzabal è cresciuto con l’intera discografia dei Beatles sotto il cuscino, e altrettanto vero che i due sono bravi ad attualizzare e rinfrescare quelle melodie, e a rimeditare in chiave adulta il synth pop che impazza in quegli anni, usando le tastiere con gusto ed equilibrio, senza disdegnare però l’uso delle chitarre. L’album, quasi un concept sull’infanzia difficile vissuta da Orzabal (la foto del bambino in copertina è in tal senso assai esplicita), piace molto al pubblico inglese, così tanto che in breve tempo vola al primo posto delle charts britanniche. Merito di un pugno di singoli dalla melodia irresistibile: oltre ai citati Mad World (che Gary Jules riporterà al successo nel 2005 reinterpretandola per la colonna sonora del, sopravvalutato, Donnie Darko), Suffer the Children e Pale Shelter, a far sfracelli è soprattutto un brano molto dance intitolato Change, premiatissimo nelle vendite anche in Italia. Spinti dall’inaspettato successo dell’esordio, i Tears For Fears, perfezionano la loro idea di musica, distaccandosi ulteriormente dal synth pop, e rendendo sempre più complessi i testi delle canzoni, che oltre alla psicologia e all’infanzia, questa volta rivolgono uno sguardo anche alla scena politica nazionale e internazionale. Quando esce Songs From The Big Chair (1985), il nuovo suono è frutto di un impasto equilibratissimo fra rock e pop, che parla un linguaggio universale e scala le classifiche di tutto il mondo (USA compresi), arrivando addirittura a conquistare quattro dischi di platino. L’ispirazione è ai massimi livelli, le melodie acquistano qualità grazie a un taglio malinconico e, talvolta, ombroso, che non toglie però brillantezza a brani che possiedono un alto contenuto energetico. Così su MTV e per radio impazzano veri e propri tormentoni (di qualità) che portano il nome di Shout (potente, tribale e solenne) ed Everybody Wants To Rule The World (entrambe prime negli Stati Uniti). A ben ascoltare, però, c’è altro e anche meglio: il blues sofferto di I Believe, il basso pulsante che introduce il rock adrenalinico di Broken, la solarità funky dell’incredibile Heads Over Heels, irresistibile esplosione di vitalità adolescenziale e forse la loro miglior canzone di sempre. Dopo quattro anni di guadagni e lodi sperticate, i Tears For Fears tornano sulle scene con un album che si discosta non poco dai suoi due predecessori. The Seeds Of Love (1989), costato un milione di sterline e il quasi fallimento della Mercury Records, si presenta come un disco raffinato, pretenzioso e ricco di sonorità jazzy e soul che levigano elegantemente la grande passione di Orzabal per i Beatles. Non tutto è centrato, a tratti il suono si fa verboso e ricco di orpelli, e la super produzione con ospitate di grido (Phil Collins, Manu Katchè, Oleta Adams), imbolsisce un po’ il tutto. Le cose buone, comunque, non mancano, a partire dal singolo Woman In Chains (straordinaria interpretazione vocale di Oleta Adams), alla hit Sowing The Seeds Of Love, beatlesiana fino al midollo e venata da una polemica a distanza con Paul Weller, accusato di aver messo fine all’avventura Jam (“kick out the styles, bring back the jam”), e al soul cristallino di Advice For The Young At Heart, sicuramente la miglior canzone del disco. Alla fine delle registrazioni Smith se ne va, sbattendo la porta, stufo dell’egocentrismo di Orzabal e del suo modo cerebrale e pignolo di approcciarsi a composizione e produzione. Dal canto suo, Orzabal, che ha ormai perso il suo tocco magico, si tiene stretto il marchio di fabbrica e continua a sfornare dischi, questa volta, però, non particolarmente ispirati. Elemental (1993), dalle sonorità marcatamente soul, e Raoul And The King Of Spain (1995), un pretenzioso concept album privo di leggerezza e divertimento, sono un flop in termini di vendite e mostrano una creatività da raschio del barile. Nel 2001, Orzabal e Smith, che per tutto il decennio precedente non avevano smesso di attaccarsi e insultarsi attraverso la stampa specializzata, finalmente si riappacificano, tornano a frequentarsi, meditano la reunion e cominciano a pensare a un nuovo album. Dopo numerose traversie, e solo nel 2005, viene alla luce Everybody Loves A Happy Ending, che sotto il titolo autoironico nasconde un buon lavoro, in cui è ancora la passione per la musica dei Beatles a farla da padrona, anche se questa volta l’elettronica è quasi completamente abbandonata in favore di strumenti acustici. Splendida la title track, migliore episodio di un album che, nonostante l’impegno del duo, vende davvero pochino. Oggi, Orzabal e Smith, superata abbondantemente la cinquantina, hanno ritrovato intesa ed equilibrio, registrando cover (bellissima Ready To Start dal repertorio degli Arcade Fire) e lavorando al nuovo album che, dopo annunci e smentite, dovrebbe essere pronto per la primavera del 2018. In tale attesa, la band ha pubblicato il 10 novembre di quest’anno Rule The World, ennesimo greatest hits, contenente sedici canzoni, di cui undici già presenti in Tears Roll Down (1992), due prese da lavori più recenti (Break It Down Again da Elemental e Raoul and the Kings of Spain dall’omonimo album) oltre a due inediti. La registrazione è scintillante (si coglie davvero l’essenza di composizioni che possiedono ormai le stigmate di ever green), ed è questo forse l’unico motivo per approcciarsi a un repertorio arcinoto. I due nuovi brani (erano ormai tredici anni che i fans attendevano un inedito), a dirla tutta, non sono, infatti, un granché: Stay è un lentone sofferto, ma abbastanza ovvio (siamo dalle parti degli ultimi Coldplay) mentre I Love You But I’m Lost, modernissima nei suoni, è un brano dance molto ruffiano ma povero di contenuti. Ottimo vademecum per neofiti, sostanzialmente inutile per tutti gli altri.

 Ad Ale, come promesso.