Si dice che quello che i nostri figli ascoltano non deve piacere ai genitori, luogo comune che dovrebbe indicare la bontà di cantanti, band e musiche a corollario. Le cose si sono complicate da quando chi oggi è impegnato nell’arte genitoriale era a suo tempo uno smandrappato perso per l’hard rock, il prog, il punk, il funk, insomma di tutti quei generi che col tempo sono assurti allo status di “classici”. Ancora più complicato si fa il discorso quando un’artista che potrebbe essere tuo figlio canta e suona cose che a te piacciono. Un bel corto circuito, verrebbe da dire, a meno che il tuo virgulto non ascolti la trap e allora sì, qui la divisione, almeno per quanto mi riguarda ritorna come era ai tempi dei miei diciotto anni.
Che di trappettari (mi si perdoni l’orribile neologismo) l’Italia è piena, hanno successo tra i pischelli, purtroppo anche molto piccoli (un bambino di dieci anni non dovrebbe ascoltare quei testi, proprio no) come se il genere avesse annullato gli altri. Per fortuna non è così e la dimostrazione arriva dal primo EP della ferrarese Arianna Poli, “Ruggine”, edito da Sonika Recordings, ragazza neodiplomata che potrebbe, per l’appunto, essere mia figlia, vista la giovane età.
Arianna quello che canta se lo scrive e lo scrive bene: testi profondi e maturi che sono come un calcio nelle palle per tutti quei barbogi che pensano che i nostri ragazzi siano tutti dei decerebrati persi dietro ai soldi e al successo.
Un disco pieno di personalità e dal bel carattere, come l’iniziale “Mi Libero di Te”, brano dalla calma apparente, giocato con voce e chitarra acustica, salvo trasformarsi in una urticante rasoiata di chitarra elettrica nel refrain, dove Arianna manda a quel paese il suo uomo, senza perdere quello stile fané che pervade tutto il brano.
E la chitarra acustica è il trait d’union che intreccia i begli arrangiamenti delle canzoni, che a volte azzardano geometrie pop come nelle bellissima “Non Ti Conosco”, pezzo che fa dell’incomunicabilità tra coetanei la sua ragion d’essere e che se ne potrebbe stare in alto nelle classifiche, se le radio avessero degli art director che non fossero cresciuti con Radio Dee Jay.
“Interludio” è l’unico brano che esce dal personale per entrare in un sentimento comune non solo ai nostri ragazzi ma un po’ a tutti quelli che non ne possono più delle vacue parole dei politici e dei maître à penser all’amatriciana di questo scorcio di secolo, mentre “In Questi Casi Si Dice Buona Fortuna” è la malinconia che ti prende quando una storia va a concludersi.
“Finché Esisto” è la quotidianità fatta di assenze e di ritorni a casa su autobus freddi e vuoti, lungo strade pervase dalla nebbia e dal disincanto, preludio a “Distacco” che conclude il lavoro e ci racconta di come sia necessario abbeverarsi a tutto quello che può arrivare facendoci liberare dalle scorie di situazioni vissute e che vuoi soltanto buttare al macero.
Un bel disco, questo, suonato e cantato bene, preludio, mi auguro, ad una carriera nel panorama musicale italiano che faccia giustizia di tanta fuffa che gira, ben bilanciato tra cantautoralità e istinti indie-rock, ove quest’ultima parola non sia intesa come il solito calderone giustificazionista che vuol dire tutto e niente. Qui per fortuna di sostanza ce n’è tanta e l’augurio che posso fare da genitore, è quello di non perdersi dietro sirene sciocche e fatue.