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REVIEWSLE RECENSIONI
18/12/2020
Joe Bonamassa
Royal Tea
Joe Bonamassa si chiude nei leggendari Abbey Road Studios di Londra, si concentra sul blues britannico e rilascia uno dei suoi dischi migliori di sempre

Che gli vuoi dire a Joe Bonamassa? Che fa male a rilasciare troppi dischi? E poi, perché? Lui è fatto così, non ce la fa a stare con le mani in mano, ha un bisogno fisico, non coercibile, di fare concerti e scrivere canzoni, di pubblicare, ogni tre quattro mesi, un nuovo disco. E’ più forte di lui. Però, va detto a sua difesa, che la qualità è mediamente alta, che ogni volta s’inventa qualcosa di nuovo, e che, pur mantenendo una chiara linea artistica e un suono che è un marchio di fabbrica, cerca sempre di spostare il baricentro della narrazione.

Royal Tea, diciottesimo album in studio del chitarrista di Utica, omaggia, infatti, il british blues, come già in passato, correva l’anno 2018, Bonamassa aveva fatto con British Blues Explosion Live. Quel disco, però, era dal vivo e in scaletta comparivano cover di Eric Clapton, Cream, Led Zeppelin, John Mayall e di altri eroi britannici della sei corde. Questo nuovo full lenght, invece, è un disco di brani originali, registrati nei miti Abbey Road Studios di Londra, con la complicità di Bernie Marsden (ex chitarrista dei Whitesnake), Pete Brown (ex paroliere dei Cream) e il pianista Jools Holland (noto anche per un programma musicale condotto sul secondo canale della BBC).

L’aria di Londra, che si respira in buona parte delle canzoni in scaletta, ha dato un’ulteriore sferzata di energia alla scrittura di Bonamassa, così come la collaborazione con Marsden, coautore di molti brani del lotto. A produrre, il fido Kevin Shirley, e, in studio, la solita, rodata crew composta da Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Reese Wynans all’organo, oltre a un nutrito gruppo di coriste, capitanate dall’ugola d’oro di Mahalia Barnes. 

Se è vero che lo stile del nostro è immediatamente riconoscibile, è però altrettanto vero che Royal Tea suona come il più riuscito degli ultimi dischi in studio, grazie ad arrangiamenti più rotondi e a una energia, talvolta, addirittura debordante.

La partenza è affidata a When One Door Opens, brano lungo e strutturato, aperto da un maestoso arrangiamento orchestrale: una prima parte cadenzata e avvolgente, dalle atmosfere quasi alla James Bond, che improvvisamente esplode in una tirata hard rock, ruvida e possente.

I momenti rilassati del disco sono davvero pochi, e Bonamassa preferisce puntare il piede sull’acceleratore, come nel sensuale shuffle di High Class Girl (che ha John Mayall come nume tutelare), nelle distorsioni rabbiose della cupa e bellissima Lookout Man!, nell’apoteosi wah wah della scalpitante I Didn’t Think She Would Do It o nello scattante swing di Lonely Boy, innanzi alla quale è assolutamente impossibile non gettarsi in una danza sfrenata e liberatoria.

Due le ballate, la vibrante Beyond The Silence e la più acustica Savannah, che abbassano i giri del motore, ma non il tiro di un disco che regala ai fan cinquantaquattro minuti di energia pura e grandi canzoni. Tutto ben fatto, a partire dal packaging, una scatola di latta dalle decorazioni vintage, che richiama in modo inequivocabile le brume e le fascinose atmosfere di Londra.


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