Fin da metà anni sessanta vi sono stati paragoni fra gli Who e gli Small Faces, dopo tutto entrambe le band erano icone della scena Mod. Ronnie Lane, poi, nel decennio successivo forma i Faces con Rod Stewart, proseguendo infine la sua attitudine di songwriter in solitaria sorretto dai compagni di viaggio, gli Slim Chance, mentre Pete Townshend si barcamena tra il suo gruppo storico e il debutto in proprio, Who Came First (1972) - in cui fa capolino "Evolution", scritto proprio da Lane, che partecipa alla session registrando pure voce e chitarra - mantenendo le doti compositive sempre ad alto livello.
Non è quindi impensabile, data la comunanza del background musicale e le affinità elettive e creative dei due, l’idea di una collaborazione proficua e più completa. Rimane comunque piacevolmente inaspettata la piega che prende l’opera confezionata nel 1977, prodotta da un veterano come Glyn Johns e irrobustita dal mago del suono Jon Astley. In partenza Rough Mix doveva essere un album di Lane con la supervisione di Townshend, ma all’arrivo incappiamo in una raccolta di canzoni praticamente equamente divisa tra i due personaggi e a tutti gli effetti un intero disco, “cointestato”, nato quasi per caso.
Infatti, l’amore per la stessa musica e la voglia di sperimentare con tanta spontaneità, in relax e senza obblighi commerciali, fa sbocciare una partnership di assoluta qualità dove i “ragazzi” seguono l’istinto e fanno squadra, trovano la coesione non come colleghi rivali, ma come pari, professionisti solidali pronti a sconfinare nei territori dell’amicizia. Proprio quest’amicizia è il punto di forza, insieme a una certa spensieratezza, la quale si ode nei brani per lunghi tratti, e si spiaggia in quel caso su armonie dolcemente malinconiche. Non mancano, pur se in minoranza, momenti più duri, che rappresentano allo stesso modo gli artisti, sono semplicemente l’altra faccia della medaglia di due figure stratificate, tormentate, magnetiche, che non possono passare inosservate.
Tutto questo si trova in Rough Mix, che vanta inoltre la partecipazione di ospiti azzeccati, legati in qualche modo alla storia di Pete e Ronnie: Boz Burrell, Charlie Watts, Ian Stewart, fino a Eric Clapton e John Entwistle.
Si respirano frequentemente note profumate di country, folk e western, di quel roots rock alla The Band, alcune canzoni odorano di Little Feat, Don Williams - del quale si piazza a stupefacente chiusura l’ispirata cover di "Till the Rivers All Run Dry" - e ogni tanto aleggia il fantasma degli Who e dei Faces, ma è uno spettro sfuggente, che evapora velocemente appena viene evocato. Un’altra caratteristica del disco è la libertà che il duo si prende anche nella scelta degli strumenti da suonare personalmente. E a svariate chitarre acustiche ed elettriche si aggiungono il mandolino, il banjo, persino l’ukulele, senza disdegnare l’intuizione di mettersi sovente anche al basso, per disegnare con cura il ritmo studiato.
L'album inizia con la vivace "My Baby Gives It Away", generata dalla mente un poco malata di Townshend, che gioca sull’ambiguità e l'asciutto umorismo dei doppi sensi. Si tratta di una piccola ode rock, con diverse gustose sovraincisioni di chitarra e l'inconfondibile batteria di Watts. "Nowhere to Run" di Lane, invece, intreccia banjo, chitarre acustiche, una linea di basso dal groove imponente, l'organo di “Rabbit” Bundrick, altro special guest da urlo e direttamente connesso agli Who, e l’armonica ammaliante di Peter Hope Evans dei Medicine Head. La voce roca di Ronnie Lane è intima e disinvolta, perfetta per questo messaggio criptico che sembra essere un invito a non affannarsi troppo durante l’esistenza, poiché sono gli eventi esterni, il fato, a influire maggiormente sulla vita di ognuno di noi, senza che si possa realmente intervenire.
“Si è trattato di una collaborazione divina, è un disco che mi ha cambiato la vita. Devo, tuttavia, ammettere di non essere mai stato in grado di scrivere comodamente in coppia. Quando mi siedo con qualcun altro, trovo piuttosto difficile superare il fatto che ci sia una sorta di negoziazione creativa in corso, che non so se ho la generosità di spirito per affrontare. Ronnie era straordinario da questo punto di vista; poteva lavorare con chiunque. Era così adorabile, ma anche un musicista così sottovalutato in quei primi tempi”.
Lo spumeggiante strumentale "Rough Mix" è l’unico pezzo che smussa le difficoltà dichiarate sopra da Pete: la sua idiosincrasia a creare insieme ad altri è evidente nell’LP, dove gli autori trovano unità di intenti nell’interpretazione, ma raramente dal punto di vista compositivo. Nella title track anche quest’ultimo baluardo psicologico decade per il “deus ex machina” degli Who e l’affabilità di Lane consente una scrittura veramente fifty-fifty. Il risultato è notevole, con la stratocaster di Clapton pronta a lanciare fiamme, un drumming fenomenale di Henry Spinetti e Bundrick in gran spolvero all’organo.
"Annie" è probabilmente la traccia più bella dell’opera ed è ancora un esempio di come Ronnie sia in grado di rendere brillante e preziosa una semplice melodia. Una dolce e struggente malinconia la fa da padrona, “E’ arrivato l’inverno, Annie, non vi è nessun amico nel sole, finché anch’esso se ne andrà e noi dove ci troveremo?” e la similitudine tra stagioni e stadi della vita rende tutto straziante, “Tutti questi colori sono svaniti…ogni foglia dovrà cadere…” anche se un barlume di speranza si evidenzia nel finale “Dio ci benedica tutti, Annie, ovunque saremo”. Sono presenti in "Annie" alcuni membri degli Slim Chance: Graham Lyle, alla chitarra a 12 corde, Benny Gallagher e Charlie Hart, tesi a donare quel tocco di gitano e bucolico con fisarmonica e violino. Infine la scelta di utilizzare un contrabbasso, con Dave Markee sugli scudi, e l’atmosfera creata da Clapton all’altra chitarra acustica aggiungono magia e spiritualità, costruendo un ponte con la successiva "Keep Me Turning", caratterizzata dalla stessa tristezza e solitudine, stavolta in situazione irreparabile, “Il fiume si sta ingrossando, non c’è legna per il fuoco, dicono di aver visto il Messia, ma temo di essermelo perso ancora…”. In questo motivo spicca l’assolo di Townshend, splendidamente semplice, efficace e diverso, volendolo analizzare in modo approfondito, da tutte le sue incisioni.
Ancora più particolare per il co-fondatore degli Who risulta essere "Misunderstood", che sopraggiunge dopo un rock in stile anni cinquanta, impreziosito da un piano sbarazzino di Ian Stewart attorcigliato al pregiato sax di Mel Collins, intitolato "Catmelody", e sbaraglia quanto ascoltato fino ad adesso. Vi è un testo che è un eufemismo definire bizzarro, ove il protagonista, e ciò potrebbe essere autobiografico, aspira ad essere una persona normale, un po’ strana ma comune, con i suoi tic, le sue manie e fobie esplicitati; difetti che, parecchie volte, per dovere, timore o professione, si è costretti a tenere nascosti. "Voglio solo essere incompreso, temuto nel mio quartiere. Voglio solo essere un uomo lunatico, dire cose che nessuno può capire, essere oscuro e obliquo, incredibile e vago", canta Pete tra l’armonica di Evans e le percussioni di Julian Diggle e, nuovamente, nulla di simile è rintracciabile nel suo immenso catalogo.
“Ho sempre amato quest’album e spesso mi sono focalizzato sulle canzoni al suo interno più popolari, quelle con maggior airplay da parte delle radio, tipo My Baby Gives It Away e Street in the City. In realtà c’è ne è una molto meno conosciuta, si chiama April Fool che, devo ammettere, rimane fra i momenti più cari di cui faccio ancora tesoro".
Questa “chicca” di Glyn Johns consente di spalancare le porte alla languida "April Fool", che liricamente gioca sulla data di nascita di Lane (1 Aprile) e con un sottile sarcasmo e alcune metafore affibbia inaffidabilità a chi ha visto la luce per la prima volta in quel giorno. Dal punto di vista musicale si tratta di una ballata acustica a metà strada tra il folk e il country che sale di tono per merito del dobro di Clapton e del suo “foot tapping” ovvero del proprio piede picchiettante a tenere il ritmo.
Una storia tinta di cinismo e nostalgia viene raccontata invece in "Street in the City". Townshend si dipinge nell'immagine urbana come un osservatore, che non giudica, anche se dentro di se si lascia andare ad alcuni oscuri desideri: “Vedo il mondo passare mentre mi appoggio al mio muro, osservo come Fleet Street faccia sorgere e cadere nuovi eroi. La notizia ce l’abbiamo tutti sotto gli occhi. Uno è un peccatore, l’altro è un santo, ma la maggior parte di noi si preoccupa solo di non arrivare in ritardo. Mi appoggerò ancora al mio muro e pregherò affinché (il nuovo eroe) cada". Arricchita dalla partitura orchestrale di Edwin Astley, mitico compositore britannico suocero di Townshend e padre dell’ingegnere del suono, citato all’inizio, Jon - come è piccolo il mondo! -. "Street in the City" può essere vista come una mini-opera che dona un che di epico all’LP, con un ambizioso e riuscito arrangiamento in stile Gershwin. Voglia di tenerezza e, forse, di un poco di spiritualità, per tentare di rompere il duro guscio in cui l’uomo si rinchiude crescendo, al fine di evitare di soffrire, si percepiscono nella a tratti drammatica "Heart to Hang Onto": Ronnie canta le strofe, Pete si occupa del ritornello e produce un pungente assolo di chitarra elettrica nella parte centrale; degna di menzione la sezione ottoni pilotata da Entwistle - come scritto nelle note di copertina, (who else?), chi altri poteva curarsene? -.
"Till the Rivers All Run Dry" è la perfetta conclusione, con il “vocal help” del cantautore amico Billy Nicholls e di John Entwistle, nuovamente chiamato in causa nel progetto, di un album tristemente trascurato all’epoca, successivamente riscoperto dalla critica e giunto a esser definito capolavoro minore. Sicuramente incarna bene lo spirito degli anni settanta, volutamente spesso in antitesi con gli eccessi della decade precedente.
Ronnie ci lascia troppo presto, nel ’97, annichilito per lungo tempo da una maledetta sclerosi multipla, che gli viene diagnosticata proprio nel periodo delle registrazioni di Rough Mix. Rimane bello pensare agli Arms Concerts, organizzati in suo onore nel 1983, affollati da un nutrito cast di superstar e ideati con l’intenzione di raccogliere fondi per tale malattia degenerativa. Pete, invece, è ancora attivo e prolifico come sempre: ha appena terminato, insieme a Roger Daltrey, la prima parte, la cosiddetta “first leg” del tour degli Who, che ricomincerà in autunno.