I Dirty Streets sono la classica band di talento, con un’impeccabile discografia alle spalle e un’incredibile potenza di tiro collaudata da centinaia di infuocati live act. Eppure, come spesso accade (forse troppo spesso), resta collocata in quel sottobosco alternative frequentato solamente da pochi aficionados. Questo power trio proveniente da Memphis avrebbe, infatti, tutte le carte in regola per divenire rilevante come altri gruppi che si muovono in territori simili, i primi dei quali a venire in mente sono i Rival Sons.
L’impianto musicale dei Dirty Streets, come evoca il nome del gruppo, è sporco e grezzo, i lori riferimenti stilistici guardano a grandi classici come Jimi Hendrix, Faces, Led Zeppelin, Creedence Clearwater Revival e Humble Pie, ma la potenza hard rock blues insita nelle loro composizioni trova un’espressione meticcia, convivendo con sonorità soul e funky. Il risultato è, quindi, è una miscela cruda e turbolenta in cui il rock si sposa con echi Stax e Motown, un lungo groove, tutto sangue e sudore, che si muove come una corrazzata dal cuore pulsante di Memphis.
Il leader della band, Justin Toland (chitarra/voce), si è approcciato alla musica attraverso suo padre, un appassionato di classic rock che ha fatto conoscere al figlio Stones, Creedence e molta musica soul. A 17 anni Toland si trasferìsce a Memphis dove incontra Thomas Storz (basso), nativo della città, e lo frequenta grazie a comuni amici. La coppia trova ben presto un terreno musicale comune e inizia a suonare con il contributo estemporaneo di vari batteristi, fino a quando nel 2007 entra a far parte del trio Andrew Denham (batteria), batterista nato a Shreveport e patito dell'hard-rock di matrice britannica. Inizia così la carriera dei Dirty Street, vera e propria garage band, che inizia a suonare con pochi mezzi, e peraltro assai rudimentali, ma che si fa conoscere nell’area di Memphis grazie a dei live act feroci e travolgenti. Cinque album all’attivo, Portrait of a Man (2009), Movements (2011), Blades of Grass (2013), White Horse (2015), Distractions (2018), che hanno preceduto questo Rough And Tumble, disco pervaso dalla medesima veracità dei suoi predecessori e connotato dal consueto approccio ruvido e possente, così richiamato dal titolo.
Come si diceva poc’anzi i riferimenti stilistici dei Dirty Streets sono immediatamente riconoscibili, cosa che appare ben chiaro fin dall’opener Good Pills, infuocato hard rock che paga debito agli Humble Pie, e che in due minuti e mezzo mostra di che pasta sono fatti questi tre ragazzi: il riff sanguinoso, il timbro soulful di Toland e una sessione ritmica che non lesina colpi bassi. Inizio in derapata, seguito poi da Tell The Truth, un blues ispido e coriaceo che potreste tranquillamente trovare in un disco di John Fogerty.
Sono tanti i momenti in cui band picchia senza farsi troppi scrupoli, come succede nell’untuosa slide sui cui scivola rapida Itta Benna, nel clichè hendrixiano di Can’t Go Back o nella polvere sollevata dalla potenza elefantiaca di Think Twice, tutta muscoli, sporcizia e pedale wah wah.
I Dirty Streets, però, sono anche capaci di rallentare il passo e regalare all’ascoltatore due magnifiche ballate rurali: The Voices (su cui aleggia lo spirito dei Creedence Clearwater Revival) e la conclusiva On The Way, gli occhi abbacinati dal sole, mentre poco più in là scorrono sonnolente le acque del Mississippi. Chiosa di un disco rumoroso e vibrante, che si allinea a quelli precedenti, per una discografia (e una band) che meriterebbero ben altra visibilità mediatica.