Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
28/04/2020
Rotting Out
Ronin
Un samurai senza padrone, decaduto, disonorato, libero. Queste le diverse accezioni del termine Ronin, che dà il titolo al terzo album di una delle più note punk hardcore band di San Pedro, Los Angeles, i Rotting Out. Un particolare amore per il Giappone? Affatto. Il Ronin è la perfetta rappresentazione della figura e della situazione di Walter Delgado, cantante della band.

Dall’ultimo disco dei Rotting Out, The Wrong Way (2013), sono passati sette anni. Sette anni densi di quelle che Delgado descrive come “lezioni difficili, periodi di isolamento, peso della colpa, diagnosi, realizzazione paralizzante, assoluta disperazione e anche assoluta pace e calma”. Cosa significa nella pratica? Aver subito un arresto e una condanna a 18 mesi di reclusione per il trasporto di 317 kg di marijuana. Un’esperienza che è stata una delle tante cicatrici nella vita di Delgado.

Spesso, nell’hardcore delle periferie delle grandi città, sono numerose le band che inneggiano ad un atteggiamento da ghetto, parlando di situazioni, contesti e atteggiamenti in verità lontani da quella che è sempre stata la loro realtà. Ebbene, questo non è di certo il caso dei Rotting Out, perché oltre alla recente esperienza dietro le sbarre, quella che emerge da questo album più che da qualsiasi altro della band, è una confessione e una disamina aggressiva, dolorosa, sincera e quasi punitiva di una vita non di certo facile, segnata dagli abusi fisici, verbali e psicologici sin dalla più tenera età.

Da sempre legati al suono di Suicidal Tendencies, Pennywise e Black Flag, oltre che alla scena skate e hardcore del sud della California, a livello musicale la combinazione di violenza, riff, rabbia, frenesia, velocità e cura nelle melodie sottese ai breakdown rimane la stessa, anche se rispetto agli ottimi album precedenti la voce si fa spesso molto più stridula, ed è un elemento a cui bisogna allenare l’orecchio.

Quello che risulta centrale in Ronin, però, sono i testi: fulcro del processo di autoanalisi sincera e spietata di Delgado, che vede per la prima volta mettere nero su bianco la sua storia, le sue esperienze, i suoi sentimenti e il suo passato, anche quello che prima non avrebbe mai pensato di ammettere.

Si passa da “Vessel”, che in apertura dell’album lo presenta come «un bastardo delle terre cattive, un ragazzo ferito da tempi brutti, dalla presa debole e dalle mani rotte, costruito da un uomo distrutto, che ride di se stesso mentre si trascina per le strade» per arrivare a tracce come la cruda “Stones”, in cui Delgado sputa rabbioso parole che descrivono l’ambiente denso di prostituzione e violenza vissuto nei bassifondi della metropoli, le notti a dormire negli scatoloni, e di come questo abbia influenzato inevitabilmente sia lui sia il suo modo di scrivere.

Al cuore di Ronin, invece, si urla l’esperienza del carcere e della detenzione, ricordando però che «l’inferno non è dove sto andando, ma dove sono stato» (“Prisoner”), grazie alle umiliazioni che gli si leggevano sul volto sin da quando aveva sei anni. E si arriva a chiedere e cercare redenzione sulle note di “Unforgiven”.

«Dipende tutto da me, non vedi? Sono l'unico che mi ha messo in ginocchio. Incatenato al dolore che non mi lascia respirare. Quando il sole splende, distolgo lo sguardo. Perché per tutta la mia vita, ho sentito che l'ombra era pensata per me. Parole come "papà", "casa", "amore", "speranza" sembravano così lontane. Sono passati trent'anni e si sta invecchiando. Non voglio più sentirmi così. Voglio correre verso il sole, trovarmi in me stesso». (“Thief”)

Con “Thief” si trova spazio per la riflessione e per la voglia di autodeterminazione, di un nuovo corso per il proprio futuro. Un bellissimo finale, se non fosse che la conclusione di Ronin è lasciata invece al racconto e alla terribile confessione di “Boy”, in cui Walter Delgado descrive l’esatto momento in cui ha perso l’innocenza, per mano degli abusi subiti da parte di uno sconosciuto. Perché la pace non è tanto e non solo nel guardare al futuro, ma si può ritrovare solo nel momento in cui si fa pace con i fantasmi del passato.

«"Farò del male al tuo fratellino se ne parlerai mai". Anche se lo facessi, chi crederebbe a un bambino senzatetto? Quelle parole sono radicate nella mia anima. Il mio mondo è cambiato per sempre mentre chiudevano a chiave la porta.

Ho chiuso gli occhi, non ho mai parlato. Solo in un momento, sepolto nella mia mente. Ora non piango, quindi nessuno lo sa. Vagando per il mondo con il solo istinto di sopravvivere. Eccomi qui. Vagando da solo. Ogni passo pieno di vergogna». (“Boy”)

10 tracce e 24 minuti di violenza sonora e verbale. Un viaggio senza sconti e senza compromessi: da ascoltare per chi volesse solo del puro hardcore californiano di area losangelina, anche da leggere per chi volesse invece vivere l’esperienza completa.

I Rotting Out sono tornati, più forti, agguerriti e convinti che mai. E voi? Come stanno i fantasmi del vostro passato? Avete già scontato le vostre pene? Trovato la vostra redenzione? Confessatevi urlando tra le note di Ronin, la compagnia è quella giusta.


TAGS: LauraFloreani | loudd | recensione | Ronin | RottingOut