Una delle possibili chiavi di lettura del nuovo disco dei Fontaines D.C. può essere ritrovata nei testi di due canzoni. La prima è “Desire”, quello che sarà forse tra gli episodi più chiacchierati di questo lavoro: “Deep they’ve designed you / from cradle to pyre / in the mortal attire / desire”; l’altra è “Horseness is the Whatness”, che è probabilmente l’unico legame esplicito ancora rimasto alla loro “irlandesità” (giusto per parafrasare il titolo), visto che si tratta di un palese riferimento ad una famosa scena dell’Ulisse, dove la battuta “platonica” del protagonista Leopold Bloom è in qualche modo un espediente, ingenuo fino ad un certo punto, per tagliare corto su una discussione che stava andando per le lunghe. Al di là di questo, che c’entra poco ai fini del discorso, nella seconda parte del brano Grian Chatten canta: “Will someone / find out what the word is / that makes the world go round / Cause I thought it was love / But some say that it has to be choice / I read it in some book / or an old packet of smokes / Basics / I guess I get the gist / there’s not that much to miss / you choose or you exist".
Disegnati sin dalla nascita all’interno di una dimensione di mortalità, ma con un desiderio che brucia dentro; e questo desiderio, se osservato da vicino, si scoprirà espresso e declinato in quello strumento che, assieme alla ragione, è ciò che fa grande l’uomo: il libero arbitrio. Scegliere o limitarsi ad esistere, appunto.
La scelta è alla base di Romance, il quarto disco dei Fontaines D.C., e l’avevamo intuito già dal primo singolo “Starbuster”, che le cose d’ora in avanti non sarebbero più state le stesse. Non è la prima volta che questa band decide per il cambiamento, e se da sempre ci hanno tenuto a ripetere a destra e a manca che non amavano molto essere identificati con il famigerato revival del Post Punk, una ragione ci sarà anche stata.
A questo giro, tuttavia, le scelte potrebbero apparire più radicali, almeno ad uno sguardo superficiale. È cambiata l’etichetta: dalla Partisan alla XL Recordings, che sempre indipendente è ma che ha un roster decisamente diverso in termini di proposta; è cambiato il produttore: fuori Dan Carey, che negli ultimi anni ha di fatto plasmato l’estetica sonora di questa “nuova” musica con le chitarre in primo piano, dentro James Ford (ex Simian Mobile Disco), che ha lavorato tra gli altri con Arctic Monkeys, Blur, Foals, Florence and the Machine, e che certamente possiede altri parametri di riferimento; da ultimo, è cambiato il look: quasi irriconoscibili, quegli ex ragazzini imbronciati agghindati in normalissimi vestiti scuri, nel glamour scintillante e un po’ cafone di questo nuovo outfit, roba da far venire un infarto ai fan della prima ora.
Ancora, se vogliamo, ci sarebbe la questione del titolo e della copertina, così apparentemente triviale il primo, così smaccatamente kitsch la seconda, in entrambi i casi lontani (sempre in apparenza, attenzione) dall’immaginario decadente che eravamo abituati ad associare al gruppo.
Svolta Urban Pop? Tentativo di scalata alle classifiche? Per certi versi, assolutamente sì. Grian Chatten, recentemente intervistato dal sempre ottimo Claudio Todesco, ha dichiarato quanto segue: “Sarà ingenuo da parte mia, ma ogni tanto penso che potremmo diventare una band enorme che suona davanti a 60mila persone e poi mollare tutto e tornare a fare una vita normale”. Ed incalzato su questo, ha rilanciato: “Per 24 anni nessuno ha saputo chi fossi, ora voglio provare quest’altra vita almeno per un po'”.
Più che legittimo, ci mancherebbe. Ma attenzione a non voler ridurre la faccenda ad un banale desiderio di fare più successo (e soldi): alla base, e lo hanno raccontato loro stessi, ci sono ascolti diversi ed eterogenei, da Shygirl a Sega Bodega, passando per i Korn, in un nuovo interesse per tutto ciò che è interazione tra digitale ed analogico, tra l’elemento umano e quello meccanico. C’è stata la progressiva volontà di scrollarsi di dosso l’etichetta di “figli spirituali dei Joy Division” che troppe volte era stata loro appiccicata addosso. In tutto questo, James Ford ha svolto il ruolo di abile facilitatore, non tanto mutando radicalmente l’identità del gruppo, quanto esprimendo con altri mezzi delle costanti che, contro ogni apparenza, risultano invece ancora ben presenti.
E qui si torna a quanto detto all’inizio: Romance non rappresenta una svolta radicale bensì, se proprio vogliamo, la nuova tappa di un cammino costante, che da Dogrel in avanti ha fatto sì che questa band non assomigliasse mai a se stessa. Forse questa volta si sono spinti un po’ più in là, ma la sostanza di fondo non è cambiata.
Prendiamo la già citata “Starbuster”, ad esempio: generale attitudine Urban, cantato in linea con l’Hip Hop, ma poi ci sono quei fraseggi di chitarra in sottofondo e un non so che di straniante nel pur irresistibile ritornello, che non ce la fanno assolutamente sentire come la canzone di un’altra band (peraltro, a mio inutile parere, siamo di fronte ad un pezzo clamoroso, tra i migliori cinque del loro repertorio).
Di sicuro c’è che l’approccio generale ai brani, o anche il loro vestito, è diverso: sono da una parte più pieni, nel senso che c’è più roba sullo sfondo, più rumori, più effetti, più Synth; c’è un ruolo maggiore delle orchestrazioni, che in alcuni casi si prendono gran parte del brano; ci sono delle chitarre molto diverse, a volte ultra sature, altre volte semplicemente acustiche, ma in ogni caso utilizzate in maniera molto più semplice e lineare di prima; c’è, infine, la voce di Grian Chatten, che sembra quella di un altro cantante, da tanto espressiva, varia e versatile è diventata.
Il risultato è un disco che pare strizzare l’occhio alla melodia e all’immediatezza, anche a quella più banale, come hanno in certo modo mostrato due dei singoli apripista, “Favourite” e soprattutto “Here’s the Thing”, per molti versi inseriti in un certo filone di rock da classifica (che in Italia siano stati mandati in rotazione da Virgin Radio ha innescato più di un campanello di allarme) e che non nega certe incursioni in ambito Pop (“Desire” ha diversi ingredienti da ballata da classifica, “In the Modern World”, col suo incedere spigliato, ha un ritornello che sembra uscito dalla penna di Jack Antonoff e preciso che per quanto mi riguarda è una delle più belle dell’album).
Allo stesso tempo, però, Romance è molto più Fontaines D.C. di quanto non lascino pensare i segni esteriori: non è un disco pacificato, innanzitutto. A dispetto del titolo, qui di amore, almeno di quello salvifico, ce n’è veramente poco. Il cuore in copertina è una sorta di mostro contorto, il suo ghigno malefico fa pensare ad un incubo distopico e non è un caso che proprio la title track, che apre il disco, coi suoi cupi bordoni di Synth, il basso distorto ed il clangore rumoroso sullo sfondo, sembri costruita appositamente per generare inquietudini, come in una sorta di visione lynchiana.
“Bug” e “Death Kink”, seppur più lineari nel suono e nelle intenzioni, sono figlie di Skinty Fia e possiedono la stessa straniante melancolia; anche dal punto di vista lirico, visto che nella prima Grian dice di sentirsi “gettato via come il bouquet ad un matrimonio” e nella seconda si racconta una relazione tossica e distruttiva. Anche “Motorcycle Boy”, che pure ruota attorno alla chitarra acustica, possiede un non so che di disturbante; per non parlare poi di “Horseness is the Whatness”, scurissima nonostante gli archi che la riempiono in crescendo.
Il modo migliore di inquadrare il quarto disco dei Fontaines D.C. non è dunque quello di raccontarlo come il radicale cambio di rotta di un gruppo ammaliato dalle sirene della fama, bensì come l’ennesima tappa di un cammino coerente e consapevole. Già, perché la dote maggiore di questi cinque irlandesi pare proprio essere la consapevolezza: dei propri mezzi e della propria grandezza. Un fattore che, molto di più di un superficiale restyling, rende piuttosto prevedibile il raggiungimento di una dimensione molto più ampia di quella che possiedono ora.
Attenzione però: non è con questo disco che faranno il botto. Ci sono almeno tre-quattro brani che possono piacere anche a chi non li ha mai sentiti nominare, è vero; allo stesso tempo però siamo ben lontani da una modalità immediata ed easy listening nell’interpretazione del songwriting.
Il vero cambiamento, se mai ci sarà, dipenderà da come Romance verrà accolto. E le strade, a quel punto, saranno due: potranno crescere ulteriormente, aumentando il rischio di diventare realmente i beniamini di Virgin Radio, oppure continuare a realizzare bei dischi, ma divenendo fisiologicamente meno rilevanti, amati da un ampio zoccolo duro di fan ma citati nei manuali di storia solo per i primi tre titoli.
In poche parole, la scelta è tra essere i Coldplay o gli Arcade Fire. Ma a questo punto non sono così sicuro che possa solo essere una scelta.