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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
23/03/2018
Woodstock in Argentina
Rock hasta que se ponga el sol
Cosa sovraintende all’apprezzamento di un’opera artistica (e di una manifestazione naturale; o della bellezza)? Il contesto culturale, direte. E sia, in parte è così. In parte, tuttavia.
di Vlad Tepes

Cosa sovraintende all’apprezzamento di un’opera artistica (e di una manifestazione naturale; o della bellezza)? Il contesto culturale, direte. E sia, in parte è così. In parte, tuttavia.

Contesto personale. Questo è il più facile: i gusti propri di un fruitore musicale, ad esempio. Liberi quant’altri mai: soggiogati dalla latitudine, dagli usi, ma anche (somma contingenza) dalle vicende soggettive: un amore, una vicenda fortunata, il rimembrare la giovinezza legano a doppio filo dischi o brani e li sottraggono alla razionalità della critica.

Contesto tradizionale (famiglia, educazione, nazione etc). L’ascendenza familiare, il genio della nazione sbozzano fruitori estetici predisposti verso timbri, toni, melodie, assonanze e ritmi che, a fruitori altri, paralleli ed estranei, suonano incomprensibili, oppure anonimi.

Contesto epocale. Sottogenere del precedente. Un preciso periodo storico aggruma tendenze, simpatie a cui i singoli fruitori, volenti o nolenti, si acconciano irresistibilmente: rococò, liberty, Biedermeier, funzionalismo, progressive, country rock, grunge, art pompier, techno. Il contesto epocale si accompagna a vizi, mode, propensioni: la sovrastruttura di tale gusto spesso estemporaneo.

Contesto pubblicitario. Fiammate indotte del gusto: balli di San Vito, pestilenze, isterismi commerciali; con una precisa scaturigine, quasi sempre artificiale e scientifica. La resistenza pare impossibile: maghi e streghe, al riparo dalle multinazionali, filtrano i beveraggi per il popolo bue; si punta alla maggioranza silenziosa (la campana di Gauss: i consumatori al centro, i falliti o i piantagrane di lato…); si centra il bersaglio: da silenziosa la maggioranza diviene quasi sempre ossequiosa (a Lady Gaga, U2, Justin Bieber, Oasis et cetera).

Contesto culturale indotto o acculturazione. Come quello pubblicitario, ma tarato su lunghe distanze temporali al fine di trasformarlo in culturale. Ne parlava (mezzo secolo fa) Pier Paolo Pasolini.

La tradizione di un popolo cede a quella di un altro: l’Italia quale esperimento di colonizzazione angloamericano; il fruitore musicale riceve, sin dall’infanzia, l’imprinting dell’anatroccolo (l’anatroccolo apre gli occhi e segue il primo vivente che cade nel circolo della propria coscienza). E così l’italiano: Elvis Presley, Beatles-Rolling Stones-Who, Frank Sinatra, poi Pink Floyd (Another brick in the wall!), Police, U2, Blur; il resto del mondo sonoro per l’italico cane di Pavlov sfuma da subito in intrico indistinto e indesiderabile: la “Virgin Forest”; per il consumatore la via è tracciata; la sua vita di ascoltatore anche; i dischi son già pronti sul piatto: per il ribelle c’è pronto Bruce, per il melodico il nuovo wall of sound inglese e così via: per il nazionalista di provincia, ancora istintivamente meno globalizzato, si approntano modelli ad hoc: per il ribelle c’è Ligabue-e-Vasco, per il melodico Pausini e Antonacci.

Questo nel migliore dei casi.

Rock hasta que se ponga el sol fu la colonna sonora del film omonimo diretto da Aníbal Uset nel 1973; si basava sulle registrazioni del Festival Rock di Buenos Aires dell’anno precedente. Nei primi anni Settanta in Argentina regnava un conflitto politico cruento e durissimo fra sinistra e peronisti: esso portò, per l’implacabile coazione a ripetere della Storia, alla richiesta di legge e ordine; l’anelito al viver quieti s’inverò stavolta con le fattezze piccolo borghesi del dittatore Jorge Videla.

Ascoltando il disco, pensavo: nonostante la musica sia, fra le arti, quella universale, poiché spiccia da ingombri contingenti; nonostante l’esperanto di chitarra, tastiere e ritmica, che accomuna tutti dall’Artide all’Antartide, cosa posso capire di tale disco? Come posso immedesimarmi in quel contesto culturale (l’ansia di democrazia, l’odio politico etc. etc.)? Quale la mia comprensione profonda, a quarant’anni e undicimila chilometri di distanza? E tale ignoranza, non dolosa, non si rifletterà sul mio (nostro) giudizio critico?

E ancora: possibile che, dopo tutti questi decenni di ascolti serrati, non avessi il minimo sentore di tale Woodstock sudamericana? Non sarò anch’io preda e vittima di quell’acculturazione indotta, di quell’imprinting che m’induce a riandare esclusivamente alla Woodstock della contea di Bethel (Oh, Richie Havens! Oh, Santana! Oh, Canned Heat!)?

E, dopo decenni di Joe Cocker and Little help from my friends (ascoltati e riascoltati, magnificati, amplificati, sedimentati), l'analisi di Rock hasta que se ponga el sol quale valore avrà?

Le ansie e le palpitazioni dell'arena di Buenos Aires (quanti di loro sopravvissero alla dittatura?) erano forse inferiori ai moti del cuore degli hippies? E la musica? Così insulsa da meritare un oblio tenace e universale? Uno scarto di considerazione così abissale?

No, assolutamente no.

A volte la gloria è di chi se la piglia. Per questo servono i critici: per riequilibrare le sorti della fortuna e dell'inganno commerciale.

Per questo oggi non ne esistono più.