Basterebbe dare un’occhiata alla copertina per rendersi conto che qualcosa è cambiato per i Supergrass, all’alba del quinto lavoro in studio. L’immagine della luminosa autostrada che porta a Rouen elimina in un baleno tutto quanto accaduto in precedenza. Nessun volto dei membri del gruppo, come capitato invece negli altri artwork, ma qualcosa di più sofisticato, che ovviamente fa subito pensare a un viaggio e metaforicamente ciò avverrà con un nuovo percorso nella musica, più maturo e consapevole. Lo sfavillante britpop degli esordi ha lasciato spazio a una concezione più raffinata, che non disdegna arrangiamenti orchestrali di fiati e archi per solcare meravigliosamente alcuni motivi sapientemente posizionati all’interno della raccolta.
Sicuramente svariate vicissitudini personali hanno deviato l’orientamento musicale, dalla perdita della madre per i fratelli Gaz e Robert Coombes, con quest’ultimo ormai accorpatosi pure ufficialmente come tastierista al terzetto di Oxford, ai profondi dissidi interni creatisi per l’imponente sovraesposizione ai tabloid di Danny Goffey; i dissapori erano cominciati da quando, anni prima, il batterista si era trasferito a Londra per vivere con la sua compagna Pearl Lowe, brillante lead singer dei Powder e Lodger, ora acclamata fashion designer.
“L’introspezione e l’orchestrazione di parte del disco emergono come reazione a tutto quanto di brutto avveniva intorno a noi”, ammetterà nel 2008 il bassista Mick Quinn, ma, come spesso succede nel mondo delle sette note, un periodo tormentato può essere fonte di ispirazione e Road to Rouen ne è un esempio confortante, con le sue melodie intriganti avvolte da uno spirito scanzonato, che ammiccano al passato senza essere scontate.
L’avvio è folgorante, "Tales of Endurance (Parts 4, 5 & 6)" è una cavalcata impazzita, dal lungo incipit strumentale immerso in atmosfere western, con contrappunti psichedelici in cui il country domina fino a essere ammansito da ottoni e violini, condotti magistralmente dall’eclettico Simon Hale: questo è il momento in cui appare la voce di Gaz Coombes, ora il pezzo cambia identità e scorre acido, devastato dalla chitarra “cattiva” del vocalist, seguito nella durezza quasi hard rock dai compagni. Il testo apre derive psicologiche, “La scorsa notte ho pensato a un'altra vita e a quello che avrei fatto”, e conferma il momento cupo, con la voglia di rifugiarsi dentro se stessi lasciando fuori il mondo, “Lo sai è un inferno, me ne vado proprio, non ci sono per nessuno, nessuno, nessuno”. E’ molto singolare la scelta del titolo, “Storie di sopportazione”, che potrebbe essere collegato anche al desiderio di trasformare il proprio orizzonte musicale e dover resistere alle critiche di addetti ai lavori e fan, da qui la frase presente nelle liriche “Hail, commercial suicide”, mentre sicuramente la divisione in Parts riprende il continuo mutamento di generi presente nella traccia, analizzato sopra.
Un altro caposaldo dell’opera è la malinconica "St. Petersburg" in cui piano e chitarre acustiche dialogano con gusto e a volte si fondono lasciando gli archi in primo piano. Pure qui perdura l’ansia di avere una nuova vita, dimenticare le antiche abitudini; il risultato è una ballata struggente, una delle migliori composizioni in assoluto dei Supergrass.
"Sad Girl" e "Roxy" sono invece due interessanti esperimenti che evocano gli anni sessanta: il primo è notevole a livello di intuizione musicale, con piano e tastiere a fungere sia da linea melodica sia da arrangiamento e il continuo richiamo a "I Am the Walrus" fa chiaramente capire da dove arrivi l’ispirazione, tuttavia è ancora meglio riuscito il secondo, un’immersione in ariose atmosfere psichedeliche.
Tristezza e abbandono permeano i testi, anche se vi è, talvolta, un lampo di speranza e a rompere l’aura mesta ci pensa il veloce “sketch” di "Coffee in the Pot", che sembra uscito da un disco dei Los Lobos, con quel suo incedere tambureggiante e ammiccante al Tex-Mex.
Il riff smaccatamente rock della title track riporta tutto su binari più lineari; il brano esprime una dinamica vigorosa, a tratti nervosa, trasuda movimento e questo è una costante che ammanta tutto l’album, anche se paradossalmente si parla di isolamento, di chiusura del proprio uscio all’avventura. Il viaggio, lungo e impegnativo, si deve percorrere all’interno della persona. E a proposito di viaggio, la rabbiosa "Kick in the Teeth" e "Low C" sono nuovamente un’escursione in territori beatlesiani, con echi di Creedence Clearwater Revival, T. Rex e Beach Boys fino a richiami di sonorità più marcatamente anni settanta.
Disincanto, ma pure voglia di trovare una direzione definitiva aleggiano in particolare nelle parole di "Low C", non a caso all’epoca scelta come secondo singolo.
“The things we used to have
Are fading all too fast
Like a castle in the sand
Well some things they′re meant to last…”
“Le cose che avevamo una volta stanno svanendo troppo in fretta, come un castello nella sabbia. Beh, alcune situazioni sono destinate a durare”.
La chiusura di Road to Rouen, l’eterea "Fin", nomen omen, è emblematicamente la fine del tragitto verso nuove ambientazioni sonore dei Supergrass ed è una morbida dedica alla mamma dei fratelli Coombes: “I hold it all to the love in her eyes, Lord knows I can feel her, see her, in my mind”.
Sono passati esattamente dieci anni dal fortunato debutto I Should Coco, tante circostanze sono cambiate e cambieranno, con lo scioglimento del 2010 e il ritorno nel 2019, ma l’impatto di questo lavoro nella discografia della band si è fatto col tempo più massiccio. Certamente la scelta della Normandia, precisamente un fienile convertito a studio di registrazione nei dintorni di Rouen, ha contribuito a creare quel clima riflessivo e introspettivo di cui necessitavano i ragazzi e che si respira nei testi a volte sconsolati, ma liberatori: ora tutte le energie negative sono confluite magicamente in melodie avvolgenti, ricercate, dalle diramazioni potenti, ma sempre ben calibrate.
“Non credo ci sia mai capitato di far lo stesso album due volte. Naturalmente ci sono tratti di Supergrass in ognuno, ma Road to Rouen è comunque piuttosto melodico. Mantiene ancora intatta la nostra essenza, il nostro tocco.” (Gaz Coombes)