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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
04/09/2017
Big Country
Rise And Fall Of A Combat Rock Band
Nella prima metà degli anni ’80, nel nord della Gran Bretagna, nascono molti gruppi che la critica specializzata fa confluire, un po' aprioristicamente, sotto l’etichetta “combat rock”. Dalla Scozia all’Irlanda, passando per il piccolo Galles, si affacciano alla scena musicale europea band come U2, Alarm, Aslan e Big Country

 

Nella prima metà degli anni ’80, nel nord della Gran Bretagna, nascono molti gruppi che la critica specializzata fa confluire, un po' aprioristicamente, sotto l’etichetta “combat rock”. Dalla Scozia all’Irlanda, passando per il piccolo Galles, si affacciano alla scena musicale europea band come U2, Alarm, Aslan e Big Country, solo per citarne alcune. Pur con i rispettivi distinguo, questi gruppi hanno in comune una forte identità nazionale, che ostentano con malcelato orgoglio, uno sguardo critico nei confronti del governo Thatcher e un approccio selvaggio e barrricadero alle composizioni, che spesso rielaborano, in chiave rock, le influenze folk del paese di provenienza. I Big Country nascono nel 1981 a Dunfermline, in Scozia, dall’incontro fra Stuart Adamson (chitarra, voce), ex leader degli Skids, e Bruce Watson (chitarra), a cui si aggiungono, poco dopo, due abili sessionisti: Tony Butler (basso) e Mark Brzezicki (batteria). Nessuno dei quattro è nato in Scozia (Watson non è neppure anglosassone, essendo originario del Canada), ma hanno nel cuore il paese delle Highlands e ne conoscono molto bene la cultura. Nasce così l’idea di un rock fortemente contaminato dalla musica celtica, anche se a differenza di altri gruppi che recuperano strumenti tradizionali (come i Pogues e i Waterboys, ad esempio),  i Big Country utilizzano le chitarre elettriche per riprodurre il suono di violini e cornamuse. Ne nasce un impasto musicale originale e inconfondibile, che inizialmente ripaga la band con ottime critiche e un notevole ritorno commerciale, ma che col passare del tempo costituirà un rilevante limite artistico alla creatività del gruppo, che porterà Adamson negli anni '90 a tentare un' “americanizzazione “ del suono. Il 24 settembre del 1982 esce, per la Ensign Records (Boomtown Rats, Thin Lizzy) Harvest Home, il primo singolo pubblicato sotto l’egida Big Country, che arriva solamente al novantunesimo posto delle classifiche inglesi, ma permette al gruppo di  farsi notare e di andare in tour a fianco dei Jam di Paul Weller. A febbraio del  1983, il secondo singolo, Fields Of Fire, entra nella top ten britannica e vende benissimo anche negli Stati Uniti. E’ solo il preambolo dell’imminente successo, che arriva nell’estate dello stesso anno con l’uscita di The Crossing (1983, Mercury), prodotto dal mago della consolle, Steve Lillywhite,  produttore che ha già messo mano al terzo, bellissimo disco di Peter Gabriel, e che sta portando al successo gli allora sconosciuti U2 (Boy, October, War). L’album vende benissimo ovunque, merito di un suono aggressivo e corposo in cui le chitarre/cornamuse la fanno da padrone. Musica  per highlander, le canzoni di The Crossing sono veraci, sanguigne, mostrano tutto l’orgoglio dell’identità scozzese anche in chiave antibritannica. Non c’è un solo momento di stanca in tutto il disco, che inanella epiche ballate (la struggente Chance, momento chiave di ogni performance live dei BC, e The Storm) e ruggenti cavalcate (In The Big Country, Fields Of Fire, Inwards). Siccome è buona norma battere il ferro finché è caldo, a sorpresa, qualche mese dopo, Adamson & Co . escono con Wonderland (1984, Mercury), Ep di sei canzoni che, per contenuti e forma, non si discosta molto dal lavoro precedente. Vende bene in Inghilterra, ma è un flop negli Stati Uniti, nonostante contenga la title track, che sarà una delle canzoni più amate dai fans della band. Il meglio tuttavia deve ancora arrivare, quando il baricentro si sposta dal folk al rock. Non è più la terra delle meraviglie, non è più l’orgoglio di vivere in “un grande paese “, ma la cruda realtà di Steeltown (1984, Mercury), in cui i Big Country raccontano un’altra storia, fatta di minatori e di operai, di povertà, di sfruttamento, di sogni infranti, di dominio inglese, politiche thatcheriane e guerra. Intenso, doloroso, crudo, Steeltown fila come un treno in corsa verso il baratro in cui la Gran Bretagna è destinata ad affondare. Se si esclude il virile canto d’amore di Girl With Grey Eyes, non c’è un attimo di sosta: Steve Lillywhite, ancora alla consolle, scolpisce un disco dal suono compatto e potentissimo, eppure al contempo disperatamente nostalgico, in cui centrale è l’epica della sconfitta e il dolore della perdita. Where the Rose Is Sown e Come Back To Me, l’una il naturale prosieguo dell’altra, parlano di guerra e di giovani mandati al macello (If I die and still come home/ Lay me where the rose is sown - da Where The Rose Is Sown), con la ritmica quadrata di Steeltown la band si schiera apertamente con la classe operaia, mentre East Of Eden riflette sullo stallo sociale e lavorativo del paese. La grande Scozia ritorna nella danza celtica di Rain Dance, mentre l’album si chiude con la leggendaria Just A Shadow, in cui Big Country snocciolano numeri da jam band e le chitarre di Adamson e Watson si intrecciano in un adrenalinico solo finale, che esalta il pubblico pagante nelle esibizioni dal vivo. Ormai i Big Country sono un nome da rispettare, hanno fama e ritorno commerciale, e li cercano tutti, dai Queen a Roger Daltrey, perché aprano i loro concerti. Tuttavia, come spesso succede, il successo riempie la pancia e imborghesisce gli animi. The Seer (1986, Mercury) presenta un suono più morbido e decisamente radiofonico e mostra una band che pare aver smarrito l’ispirazione degli esordi. Il disco vende molto bene, grazie a un singolo bomba come Look Away e al contributo di Kate Bush, che duetta  con Adamson nel folk rock della title track. Eppure, non c’è una sola impennata creativa e la scaletta palesa segni di una pericolosa stanchezza compositiva, che sarà confermata anche dal successivo Peace In Our Time (1988, Reprise), album che vende bene in Inghilterra ma è sostanzialmente un fiasco negli Usa. Il gruppo è ormai allo sbando e quando esce No Place Like Home (1991, Vertigo), si capisce che siamo alle battute finali: l’ondata grunge che infiamma il mondo mostra tutti  i limiti di una formula ormai frusta e anacronistica, e l’ora e un quarto di musica in scaletta produce gli stessi sussulti di un encefalogramma piatto. Se la qualità resta modesta, The Buffalo Skinners (1993,20th Century Fox) è quantomeno una boccata d’ossigeno commerciale per il gruppo, che continua a suonare decisamente più rock (ma sempre radio friendly) e riesce a piazzare un paio singoli in classifica, Ships (ripescata dal disco precedente) e Alone. Stuart Adamson, sempre più oppresso da problemi di depressione e alcolismo, si trasferisce a Nashville, dove cerca di superare il dolore per il divorzio dalla prima moglie. In questo nuovo contesto, esce Why The Long Face (1995, Transatlantic) di cui non si accorge quasi nessuno, anche se come bonus tracks dell’edizione in cd ci sono due ottime canzoni:  una cover di Vicious di Lou Reed e una versione acustica di In A Big Country. Poi, nel 1999, arriva un ultimo colpo di coda con Driving To Damascus (1999, Track Records), disco dal suono molto americano (negli USA esce con un diversa copertina e con il titolo John Wayne’s Dream) e decisamente lontano dalle sonorità celtiche degli esordi. Alla realizzazione dell’album contribuisce fattivamente anche il mito Ray Davies (Kinks), che scrive insieme a Adamson due delle migliori canzoni della band degli ultimi anni: Somebody Else e Devil In The Eye. I Big Country si sciolgono, ma prima di separarsi, partono per un lungo tour d’addio, da cui viene tratto un ottimo live (l’ennesimo, peraltro) dal titolo Come Up Screaming (2000, Track Records). Stuart Adamson, che nel frattempo a sviluppato un progetto alternativo con Marcus Hummon (il duo alt-country dei The Raphaels) sempre più in preda ai suoi incubi alcolici annuncia il ritiro dalle scene e sparisce nel nulla. Il 16 dicembre del 2001, viene ritrovato morto in una stanza d’albergo della catena Best Western a Honolulu, Hawaii. Si è impiccato a un calorifero con un cavo elettrico, a soli 43 anni. Oggi i Big Country sono tornati sulle scene con un nuovo disco, The Journey  (2013, Cherry Red). Alla voce, il posto di Adamson è stato preso da Mike Peters degli Alarm, e Tony Butler, uscito definitivamente dal gruppo dopo una reunion del 2007, è stato, invece, sostituito da Derek Forbes, bassista dei Simple Minds. Operazione nostalgia che non aggiunge e non toglie nulla alla storia della band.