Olivier Messiaen scrisse ed eseguì live per la prima volta il suo Quatuor pour la fin du Temps internato nel campo di concentramento di Görlitz. È Il paradosso dell’atto compositivo: tensione, disperazione e una più che legittima paura della morte che riescono a scatenare, nelle vittime, l’istinto che reagisce all’annullamento del sé con atroce bellezza, in un impeto di sopravvivenza.
Ho pensato a questa straordinaria testimonianza degli orrori del Novecento dopo aver ascoltato la prima volta “Dust Bunnies”, il singolo che ha anticipato l’uscita di Ripe, nuovo album dei libanesi Postcards. Ho provato a immaginare come sia possibile conciliare cose che diamo per scontato come il suono di una chitarra elettrica, il canto, la poesia, e anche solo concetti come shoegaze e noise - il lusso del rumore nell’accezione di espressione artistica, mica come l’inevitabile background dovuto al caos bellico a cui i civili, sono pronto a scommettere, rinuncerebbero volentieri - in posti come Beirut nel 2025, allo stesso modo con cui Messiaen e tre suoi commilitoni dell’esercito francese prigionieri quanto lui, armati (per modo di dire) di violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, da soli hanno vinto una guerra, gettando il suono e il cuore oltre la fine del tempo.
I bombardamenti dell’esercito israeliano e un genocidio alle porte imporrebbero tagli radicali al superfluo, limitando le attività delle persone a quella essenziale, salvare la pelle, in un kit di sopravvivenza in cui una entità immateriale come la musica, astrazione che comporta serenità, silenzio e uno spazio intimo necessario alla sua elaborazione, non può certo rientrare.
Solo e soltanto da questo punto di vista, la musica dei Postcards è disturbante, mette a disagio mentre la si ascolta al sicuro dentro i nostri auricolari, riparati nelle nostre case intatte e allineate lungo le vie delle nostre città ordinate e sgombre da macerie, al riparo dalle interferenze delle sirene di allarme o quelle in loop delle ambulanze. C’è un mondo che cade a pezzi e una band trascende un sentimento ancestrale come la rabbia in musica. Uno stile che stempera l’angoscia con l’ardore dell’immaginazione e organizza l’irrazionale in un linguaggio in grado di trasmettere al meglio gli aspetti fondanti della disperazione e della paura.
Non è fuori luogo, quindi, scrivere che in uno scenario come questo i tre componenti della band con base a Beirut - Julia Sabra (voce e chitarra), Pascal Semerdjian (batteria) e Marwan Tohme (chitarra e basso) - risultano dei sopravvissuti a tutti gli effetti, a poco più di dieci anni di attività e, ora, al quinto album. Ripe è un’opera in cui i Postcards portano a termine una rielaborazione del loro percorso musicale rivisitato sull’onda della storia più recente. Il suono, necessariamente più viscerale e cupo, mantiene al contempo la stessa incrollabile determinazione e trasmette la dignità con cui la band riesce a rispondere, ancora una volta nel modo più comprensibile agli ascoltatori distanti come noi, alla tragedia che si sta consumando dentro e ai margini dei confini del posto a cui appartengono.
Per questo in Ripe prevalgono le trame più dolorose, riconoscibili nel loro stile shoegaze dal retrogusto post-punk, mentre le componenti dream-pop, nei dischi precedenti sorrette dalla straordinaria vocalità di Julia Sabra, perdono i toni pastello e l’effetto vignettatura tipico dei sogni e si corrompono della peggiore realtà circostante. Uno sdegno sonoro urgente e discontinuo, alternato a momenti di sofferente consapevolezza dell’inevitabile sconfitta. Davide e Golia, l’epica che beffardamente si ripropone nella sua primitiva crudezza.
Ripe è un disco in studio (è stato registrato in presa diretta nella casa del batterista Pascal Semerdjian, ubicata sulle montagne libanesi) ma consapevolmente live. L’energia dei brani è la stessa reazione dell’espressione nella copertina, il fastidio una secchiata d’acqua in faccia, una bella seccatura, in costante equilibrio tra la consapevolezza del tenere la situazione sotto controllo e l’istinto di dover scappare via, senza pensarci, in preda al panico.
Tra le distorsioni di “I Stand Corrected”, l’allarmante "Dust Bunnies" (“I nostri antenati avrebbero dovuto saperlo, non c'è più nessun posto dove andare”) in antitesi con il suo opposto industrial “Ruins” (“come radici tra le pietre noi perseveriamo”), il funereo incedere - non caso siamo dalle parti dei Cure più recenti - di “Wasteland Rose”, lo struggente groove di “Colorblind”, la bellezza di “Construction Site” e le reminiscenze di Dummy di “Angel”, ribadite nella conclusiva “Dark Blue”, per tutto il disco la perfetta simmetria tra chitarre e sezione ritmica rilancia con potenza le dissonanze e le scomodità anche nei momenti in cui la smania di affermazione artistica, dall’alto della sua imparzialità, volta le spalle all’urgenza di trovare una risposta, una soluzione, una via di fuga, tra alienazione e malinconia.
Ripe ci lascia con un tragico interrogativo: è possibile opporre resistenza con la musica? Saranno davvero un pugno di canzoni a salvarci?