La notizia della morte di Paolo Benvegnù è arrivata qualche ora prima della fine dell'anno, in quel giorno in cui, volente o nolente, si stilano bilanci e si abbozzano propositi. Che si creda o non si creda in una qualche specie di trascendenza, la dinamica è sempre uguale: l’ultimo giorno dell'anno, oltre ad ubriacarsi, o si ringrazia o si bestemmia; all'indirizzo di chi, non sempre si capisce e forse neppure importa, sono dinamiche umane e non ce ne libereremo mai.
Spontaneo, a questo punto, il pensiero che sì, ci mancava solo questa per chiudere in bellezza un 2024 che di eventi infausti, in primis le guerre in varie parti del mondo, ne aveva già inanellati parecchi.
Ma a fine anno o si bestemmia o si ringrazia e io, per quanto forse controcorrente, sono qui a ringraziare. Paolo Benvegnù è stato forse il musicista di cui in assoluto ho scritto di più, nonché quello che ho avuto modo di conoscere più a fondo, sebbene non potessi certo definirlo amico.
Ho avuto la fortuna di vivere in diretta l’uscita di Hermann, che a mio parere è uno dei più grandi dischi del cantautorato italiano degli anni Duemila e forse non solo. L’ho visto dal vivo per la prima volta proprio in quell'occasione, era il 2011 e a Milano c’era ancora la Fnac, che faceva da punto di riferimento per le varie etichette indipendenti e ospitava regolarmente instore di presentazione dei dischi. Ci fu uno showcase, una breve intervista, e poi appuntamento al Bloom di Mezzago, per una delle prime date del tour, in uno spettacolo dove nella prima parte il disco veniva eseguito per intero, un'ora di bellezza e intensità abbacinanti.
Ne vidi altri, quell'anno e il successivo, e anche di questo ringrazio: perché quando esce un album così importante e tu sei lì mentre il suo autore lo suona, e riesci a percepirne tutta la grandezza, tutto il valore che ci sta dietro, il modo in cui traccia una fotografia assieme impietosa e commovente della vicenda umana, utilizzando una sovrapposizione di tempi e luoghi a richiamare, con le dovute proporzioni, il T.S. Eliot de La terra desolata, quelle sono esperienze che vivi e che metti da parte, resteranno con te per sempre e c’è davvero molto poco da dire.
All'epoca avevo messo in pausa il mio “lavoro” di “giornalista” per cui lo incontrai solo tre anni dopo, quando uscì Earth Hotel e andai ad intervistarlo. Fu l’inizio di un rapporto professionale ma anche in un certo modo affettuoso: Paolo, lo stanno scrivendo un po’ tutti in queste ore, era una persona dall'umanità straordinaria, e non è una frase fatta. Innanzitutto aveva una dote niente affatto comune tra i musicisti italiani: non si prendeva sul serio. O meglio, era serissimo e persino puntiglioso per quanto riguarda la sua arte, ma amava, sia sul palco sia in privato, fare battute su di sé, sminuendosi scherzosamente e rimanendo sempre coi piedi costantemente per terra. E poi aveva un'attenzione rara per il proprio interlocutore: le volte in cui ci vedevamo o che ci sentivamo al telefono, che fosse per un’intervista o perché andavo a salutarlo dopo un concerto, mi faceva sempre un sacco di domande, su come stavo, su come andava la vita, e non erano mai parole di circostanza, si vedeva che il punto centrale per lui era che fosse lì con te, non che dovesse per forza di cose raccontarti della sua carriera (che poi, beninteso, era lo scopo della conversazione e così doveva essere).
Paolo era non solo un autore formidabile e un performer emozionante (che sono, in fin dei conti, doti indispensabili se vuoi fare l'artista di mestiere) ma aveva soprattutto il raro dono di godere di quel che faceva, di goderne davvero. Non si identificava mai completamente col suo personaggio; si può dire, anzi, che non avesse un personaggio: sul palco e giù dal palco era semplicemente se stesso. Innamorato della vita, sua e di quella degli altri, la beveva a piccoli sorsi e la donava, con lo stesso identico desiderio di bellezza e verità, che stesse cantando una canzone, ti parlasse di come veniva su sua figlia, o ti illustrasse una delle sue ultime intuizioni sulla società moderna.
Una carriera che non ha mai percorso i binari del mainstream, se non agli inizi con gli Scisma, che aveva poi provato a riunire senza troppo successo nel 2016, regalandoci comunque un EP ispirato e un concerto meraviglioso alla Latteria Molloy, nella loro Brescia.
Le prove soliste successive a Hermann non toccarono più quelle vette, anche se riuscirono sempre a mantenersi su un livello di eccellenza che molti suoi colleghi si sarebbero sognati, attraversando una leggera flessione solo verso la fine, quando probabilmente le idee avevano cominciato a scarseggiare ed era affiorata una certa ripetitività nelle soluzioni.
Appare dunque un po' paradossale che il primo grosso riconoscimento, la Targa Tenco, sia arrivato con un disco che, pur con qualche ottimo guizzo, non può certo annoverarsi tra i suoi migliori. Del resto è così, però: qualità intrinseca e premi ricevuti raramente vanno a braccetto, lo abbiamo visto tante volte e non è per forza di cose un problema.
Di lui ho tanti ricordi, ma ce n'è uno in particolare che mi piace richiamare, anche perché dice molto di chi fosse davvero Paolo: era il 2014, lo avevo appena conosciuto e nella scuola dove insegnavo all'epoca stavo tenendo assieme a un collega un corso pomeridiano sulla musica rock. Mi venne in mente che sarebbe stato bello coinvolgerlo, per offrire uno sguardo sulla contemporaneità della scena italiana. Accettò con entusiasmo, prese il treno da Città di Castello, dove viveva, e dialogò per due ore coi ragazzi, raccontando di sé con spontaneità ed entusiasmo, senza sottrarsi a nessuna delle domande che gli vennero poste. A un certo punto qualcuno gli passò una chitarra acustica e suonò un bel po' di pezzi, una sorta di showcase bello lungo per pochi privilegiati, donandosi con la stessa identica intensità con cui lo faceva la sera sui palchi.
Nonostante tutte le nostre insistenze poi, non volle essere pagato, nemmeno un banalissimo rimborso spese, dicendo che gli bastava essere stato con noi. Per qualche oscura ragione perdetti la registrazione di quel pomeriggio e fu un peccato perché gli spunti di quel dialogo avrebbero senza dubbio meritato di essere conservati.
L'ultima intervista gliel'ho fatta nei primissimi giorni del Covid, con Dell'odio dell'innocenza in uscita a breve e nessuna certezza sul se e quando sarebbe potuto andare in tour per promuoverlo. L'incertezza era già piuttosto alta, la tensione cominciava a montare, eppure me lo ricordo tranquillo, positivo e curioso su quello che si stava profilando all'orizzonte, che per lui rappresentava, almeno nell'impressione che mi fece sul momento, un'occasione privilegiata per comprendere qualcosa di più sul funzionamento della razza umana.
Dal vivo, negli ultimi tempi, non l'ho più visto. A Milano e dintorni ci era passato meno spesso e quando succedeva avevo sempre qualche altro concerto da coprire. L'ultima volta c'erano i Tapir! all'Arci Bellezza e lui, fresco di Tenco, era al Santeria per presentare la nuova versione di Piccoli fragilissimi film. Mi sono detto che l'avevo già visto un sacco di volte, che i Tapir! chissà quando sarebbero ripassati, mentre per lui ci sarebbero state senz'altro altre occasioni a breve.
La vita non è nostra e non è mai come ce la immaginiamo: a volte è bellissimo che sia così, altre volte, come in questo caso, è tremendo.
In questo momento il mio cuore è gonfio di tristezza ma sarebbe un errore non vedere tutta la scia di bene e di bello che Paolo ci ha lasciato. È retorico dire che sopravviverà per sempre nel cuore di chi gli ha voluto bene, ancora più retorico dire che abbiamo la sua musica ed è quella che dobbiamo ascoltare, in questi giorni e negli anni a venire. Eppure, per quanto retorico, non si può evitare di pensare che ci sia un po’ di verità, in queste considerazioni.
In quella che a mio parere resta una delle sue canzoni più belle, “Nel silenzio”, rappresentazione vera e magnifica del distacco come unica possibilità di rendere davvero autentico un amore, cantava: “Io devo ritornare a camminare verso ciò che non so”. Vale per lui, ovunque si trovi in questo momento, vale per noi, che ci sentiamo deprivati ingiustamente e crudelmente di una presenza buona, uno strappo che il tempo saprà forse ricucire ma i cui segni ci resteranno addosso per sempre.
Era un cantautore vero, Paolo Benvegnù, in un’epoca strana e mutevole in cui questa parola è stata mandata in qualche modo fuori tempo massimo, prima dal Pop travestito da Indie di scuola calcuttiana, poi dal Rap e dalla Trap in tutte le sue migliaia di declinazioni giovaniliste. E Paolo, noncurante di tutto questo, andava avanti, nel solco dei grandi, altrettanto grande lui stesso, cosa che si era già capita ai tempi di Piccoli fragilissimi film (che amara ironia e che coincidenza strana, che la sua carriera sia terminata così, col remake condito di ospiti di quell’esordio capolavoro di vent’anni fa) ma che ci è stata confermata disco dopo disco, anche da quelli meno ispirati.
Un cantautore vero, appunto. E quella riposta che ha dato a Via dei Matti n. 0 da Stefano Bollani e Valentina Cenni, in quella che a conti fatti rimarrà la sua ultima apparizione pubblica (e dove, oltretutto, si è esibito in una versione magnifica di “My Sweet Lord” di George Harrison, la canzone con cui ha scoperto l’amore per la musica) centra il punto in maniera disarmante e rimarrà per sempre una delle migliori fotografie di un artista a cui saremo sempre eternamente riconoscenti: “Il vero cantautore è un ricercatore di cose non utili, nel senso che tutto è teso all’utile di potenza personale, di denaro e perciò noi brancoliamo nell’inutile. Ma chi dice cosa possa essere veramente utile? Io ad esempio trovo veramente utilissimo vedere i bambini correre nei prati. Non portano denaro ma portano gioia”.
Ciao Paolo. Speriamo di rivederci prima o poi, in qualche modo e in qualche luogo.