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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/03/2025
Live Report
Rick Wakeman, 04/03/2025, Auditorium Parco della Musica, Roma
Pioggia di note all’Auditorium: l’ultimo(?) incantesimo di Wakeman. Il vecchio Maestro, con la sua lunghissima carriera, regala ai fan un'ultima serie di concerti solisti per pianoforte che dovrebbero rappresentare il suo addio alle scene. Un'occasione speciale per riassaporare i suoi grandi brani, raccontata dal nostro TheShadow e arricchita dalle fotografie del nostro Gianluca D'Alessandria.
di TheShadow

Sono all’interno della Sala Petrassi, il più piccolo degli scarabei verderame che si raccolgono per comporre il tempio moderno della musica romana, l’Auditorium Parco della Musica: una sofisticata architettura, incastonata come una perla scintillante di arte e cultura all’interno di un’ostrica sempre affascinante anche se un po’ fatiscente.

La sala si riempie lentamente ma inesorabilmente: qualcuno comincia a rumoreggiare.

Si sa che i fan più puntuali sono quelli più impazienti.

Mentre vago con lo sguardo e mi distraggo, rapito dalla sinuosa sensualità dei dettagli costruttivi che contribuiscono a garantire la perfetta acustica di questa sala, un rumoroso stropiccio mi riporta sulla terra. Qualcuno dietro di me sta scartando un vinile nuovo di zecca e lo tira fuori per ammirarne la copertina. Il mio vicino lo nota e gli sussurra sornione: "Quello è bellissimo…". L’altro gli risponde un po’ imbarazzato: "Lo so, l’ho portato per farglielo firmare".

Si sa che i fan più impazienti sono quelli più appassionati.

 

La platea è ormai gremita, le gallerie meno, ma la partecipazione è ampia per questo burbero genio della tastiera. Si tratta di un gruppo eterogeneo, composto da gente di tutte le età, che condivide sia il gusto raffinato e snobistico per una musica arzigogolata, ricca di citazioni ed effetti d’artificio, sia la trepidazione di abbandonarsi tra le note sgargianti di questo gigante del rock.

E un gigante il vecchio Rick lo è davvero, non solo per la sua statura fisica. È difficile riassumere una carriera così lunga: si impone già sul finire degli anni 60 come enfant prodige della tastiera, alternando exploit solisti a collaborazioni eccellenti, anche se il ruolo più iconico resta però quello di tastierista e compositore per gli Yes, per i quali contribuisce a forgiare i più famosi album del gruppo, seppure con travagliate vicende di abbandoni e ricongiungimenti.

Non meno opulenta si snoda la carriera solista di Wakeman, lunga e prolifica di vari successi, anche se più recentemente, complice anche qualche difficoltà di salute e la sua conversione religiosa, il suo approccio si rivolge a sonorità più intime, ripiegando su composizioni più meditate e meditative, e pubblica numerosi album per pianoforte solo. E di questa coda lunga fa parte integrante il Final Solo Tour, ovvero una serie di concerti solisti per pianoforte che dovrebbero rappresentare il suo addio alle scene, affascinare ancora una volta il pubblico e dimostrare ancora una volta, la sua maestria musicale e il suo carisma.

 

L’attesa è finita, ecco apparire finalmente il vecchio maestro: sbuca da un lato, incitato da un applauso improvviso e appassionato della sala e si avvicina, stentatamente ma con discreta energia, al pianoforte situato nel bel mezzo del palco. Non ha più la lunga chioma che ne aveva contraddistinto la figura fino a qualche anno fa e la giacca a righe verdi non è minimamente paragonabile alle cappe scintillanti che risplendevano dietro ai suoi sintetizzatori. Il passo è malfermo, zampettante su un paio di scarpe da ginnastica gialle, ma inaspettatamente lesto: il vecchio leone ha ancora tanta energia, che si sprigiona precisa e possente quando comincia sfiorare i tasti.

Il concerto si i apre in pompa magna con "Catherine Of Aragon", tratto dal suo album solista The Six Wives Of Henry VIII: ogni brano è preceduto da un piccolo discorso introduttivo, qui condito da una punta di ironia: “Enrico sesto ha avuto 6 mogli, e io solo 4”. La pièce è un’ottima apertura, ampia, ariosa, dove si alternano fughe barocche, citazioni dotte (addirittura accenna ad "Asturias" di Albenitz) e melodie più orecchiabili, in un mix affascinante e coinvolgente.

Viene poi un trittico di cover dedicato, con più che una punta di nostalgia, a due dei musicisti che ammette di aver amato di più, Cat Stevens (non lo chiama Yusuf Islam) e David Bowie, definito decisamente come l’artista che lo ha ispirato di più in tutta la sua vita. Sono tre pezzi molto lirici e malinconici, ma che sotto le sue mani si inerpicano come edere tonali lungo capitelli armonici, impreziositi da digressioni e ricami musicali, che Wakeman domina con piglio e competenza tecnica, senza mai indugiare sulle parti più sognanti o farsi trascinare dalla carica dei crescendo, mantenendo ben salda la struttura armonica del brano e la regia sapiente di uno spettacolo rodato ma non scontato.

 

Immancabile la parte di concerto dedicata agli Yes, nel quale si dedica a reinterpretare in maniera virtuosistica tre successi di varie epoche del gruppo: si parte con "The meeting" (tratto dal disco della “reunion” Anderson Bruford Wakeman Howe del 1989) seguito da "And You and I" (tratto da Close to the Edge del 1972) e finendo con "Wonderous Stories" (da Going  for the One del 1977). Wakeman suona i pezzi in maniera ineccepibile e inesorabile, senza un attimo di esitazione, immergendosi nell’oceano vorticoso delle sue armonie, tessendo una trama musicale fitta, miscelando modi classici, blues, jazz e funk, detonando le differenze tra i generi, disponendo sulla scena sontuosi decori melodici nei quali, quasi soprannaturalmente,  l’ascoltatore è messo in condizioni di trovarsi subito a suo agio, nonostante la complessità della trama, abitando d’istinto questa foresta di suoni, intricata ma al tempo stesso, familiare.

Wakeman prosegue poi con piccola suite dedicata a Merlino e tratta dal suo LP del 1975, ispirato dal ciclo delle leggende arturiane: si tratta di un pezzo che alterna tre parti, alcune più liriche, altre più ironiche, che commentano musicalmente tre rappresentazioni diverse del mago: il canuto vecchietto che prepara le sue pozioni, suggerita dal tranquillo tema iniziale, il malizioso negromante circondato da perfidi alambicchi e veleni mortali, che ispira il tema più heavy e infine un tema più frizzante e dalle sonorità più blues e jazz, che chiosa l’innamoramento del mago per una ragazza irrispettosa che alla fine lo rinchiuderà nella grotta dalla quale non uscirà più, mettendo fine per sempre ai suoi incantesimi.

 

La magia di Rick invece non è per nulla conclusa anzi prosegue con due pièce de resistence. La sua voce roca preannuncia un omaggio a due evergreen dei Beatles reinterpretati secondo lo stile di due compositori classici: "Help!" suonato alla maniera di Saint-Saëns e "Eleanor Rigby" alla maniera di Prokov’ev. Si tratta anche qui di un’esecuzione magistrale, una pioggia di note che cadono dalle mani del biondo arrangiatore che le estrae dalla tastiera come un prestigiatore con le carte di un cilindro senza fondo, uno spettacolo pirotecnico che ci lascia sopraffatti e stupiti ma che, come ci ricorda il suo sorriso sornione, resta pur sempre un gioco.

E che il gioco non sia finito, ce lo conferma con il suo finto arrivederci quando all’improvviso si alza ed esce, una pantomima che dura poco: non c’è neanche bisogno che il pubblico insista troppo per farlo riapparire sulla scena, quasi come la gag di vecchi amici che ogni volta ripetono una scena ormai usuale. Il biondo mago ha già pronti due assi nella manica: il primo è un brano di Journey to the center of the Earth tratto dall’omonimo album del 1974: un’opera complessa e ambiziosa che fece rischiare a Wakeman il tracollo economico ma che lo impose come uno dei più importanti compositori del rock contemporaneo confermando le sue doti di virtuoso della tastiera. La suite è un complesso gioco di crescendo e diminuendo compositivi, in un arrangiamento sontuoso, raffinato e colto, dove beffardamente nel finale è incluso anche un estratto di "In the Hall of the Mountain King" tratto dalla suite Peer Gynt di Edvard Grieg.

Il secondo, per il quale viste le difficoltà di deambulazione e la stanchezza, rinuncia anche a far finta di scendere dal palco, è "The Jig", un brano strumentale tratto dall'album Criminal Record del 1977. Si tratta di un pezzo vivace che mescola elementi folk con il rock, cadenzato da un ritmo pressante e un’allegra melodia ispirata spirato alla musica tradizionale irlandese e scozzese, in particolare alle gighe (ovvero le jigs), danze popolari da cui prende il nome. È l’ultimo pezzo, il più ironico e per certi versi il più iconico, e forse è l’estremo viatico di questo monumento vivente del rock, che ci ricorda che per l’arte e per l’ispirazione non esistono distinzioni e confini, soprattutto tra musica colta e musica popolare.

 

Mentre ci avviamo verso le scale per uscire, noto che il fan che ha portato il disco da autografare è già scappato in avanti, dribblando la folla: che stia cercando di raggiungere il Biondo Maestro per coronare il suo sogno?  Vai caro, raggiungi il tuo Maestro, il tuo agognato gigante, ma ricorda: se esistono i giganti, non è per farsi adorare, ma solo per ricordarci di guardare in alto e spingerci a volare oltre le nostre piccolezze, con tutta l'arte e la fantasia di cui siamo capaci.

 

 

Le foto della serata, a cura di Gianluca D'Alessandria

Rick Wakeman