“Rain keep fallin' on my head
Sun keep burnin' out my eyes
Lord the moon he knows I'm blue
It's all because of you
Ever since you said goodbye”
J.J. Cale è stato un grande artigiano della musica rock, genere al quale ha saputo sapientemente miscelare blues, country, folk e pop. Gli ingredienti della sua arte, singolarmente considerati, possono sembrare semplici: una chitarra dal fraseggio limpido e scorrevole, una voce sottile e dolcemente rauca, arrangiamenti su una struttura di primo acchito dalla parvenza ortodossa, e composizioni che vanno e vengono nel giro di pochissimi minuti ciascuna. Tutto qui. Eppure, il risultato è coinvolgente come pochi.
Cale, il burbero chitarrista proveniente dall’Oklahoma, esercita infatti un’attrazione quasi ipnotica, un fascino discreto irresistibile. Opinioni da fan? Difficile pensarlo, se anche il grande capo dei Dire Straits e il re della sei corde soprannominato Dio lo hanno innalzato a Maestro.
Mark Knopfler accumula un debito notevole nei suoi confronti già nei primi due dischi del leggendario gruppo britannico. Provate ad ascoltare “Setting Me Up”, “Six Blade Knife” e “Follow Me Home” e poi virate su “The Breeze”, “Magnolia” o “Lies”. Vi sono molti punti di contatto, che si trovano addirittura continuativamente in tutta la carriera di Eric Clapton. In particolare Slowhand non ha adottato solo il suo tipico stile laidback, ma ha reinterpretato con vigore parecchie sue canzoni, ottenendo successo e regalandone a J.J. di riflesso, facendo conoscere al suo pubblico il songbook di quest’uomo eternamente scazzato, l’anti-eroe per eccellenza, spaventato dal pensiero di prendere un aereo e da tutto ciò che rappresenta il marketing.
«Eric Clapton ha inciso molte delle mie canzoni. È grazie a lui che non devo più lavorare per vivere. Per merito suo ho evitato di dovermi trovare un lavoro come tassista». Estratto da ChristophWagnerMusic.blogspot.com
Perdere un personaggio così controcorrente oramai da più di dieci anni è stato davvero un disastro, in un’epoca sempre più liquida e fluida ove si tende a dimenticare l’importanza delle cose e si relegano le passioni e i sacrifici a futilità, con un mondo dominato dall’apparire, dalla forza e dal denaro. Per tutti questi motivi ripercorrere la storia di Rewind, un’intrigante opera uscita nel 2007 che raccoglie alcune composizioni o cover inedite di questo leggendario songwriter, è un momento di rigenerazione, un toccasana per chi crede ancora nell’importanza della musica, indipendentemente da un discorso di moda o prettamente commerciale.
Rewind: Unreleased Recordings accorpa in un sol disco quattordici canzoni incise da Cale a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. La produzione è quella dello storico Audie Ashworth e il suono è caratteristico, al tempo stesso scorrevole e brumoso, melodico e incalzante, cupamente bluesy con esplosioni gioiose tra “Guess I Lose” e “Seven Day Woman”, da “Blue Sunday” a “All Mama’s Children”. Il suo fraseggiare mobile e circospetto e il tenere sempre viva l’attenzione sui tempi lenti o lentissimi ne fanno un maestro per intere generazioni di chitarristi. Basti ascoltare una delle vette del disco, “Since You Said Goodbye”, per rendersi conto di come anche John Mayer, Derek Trucks e Marcus King si siano appropriati di questo playing durante la loro crescita.
Il supporto, in alcuni pezzi, di giganti come Richard Thompson alla chitarra, Glen D. Hardin e Spooner Oldham a piano e tastiere, Jim Keltner e Tim Drummond alla sezione ritmica ne fanno quasi un album di all star, ma quando al timone c’è un comandante di nome J.J. Cale tutto è relativo, a brillare sono le melodie suadenti e le liriche a metà strada tra romanticismo e realismo, a volte stemperate da una lucida ironia e una gran voglia di metafore.
Nel ricco carnet dell’opera oltre a brani autografi come “Lawdy Mama”, “Out of Style” e la pregiata “Ooh La La” scritta in coppia con l’inseparabile, bravissima Christine Lakeland, compagna di vita ed eccezionale partner artistica, c’è spazio anche per le cover, belle e personali. Spiccano la tribolata “Waymore’s Blues” del “fuorilegge” Waylon Jennings, una versione da sconquasso emotivo di “Rollin’”, da uno dei più grandi songwriter dell’universo, Randy Newman, e la bellissima “My Cricket” dell’amico Leon Russell, altro personaggio eccentrico e geniale che ha lasciato sparse qua e la nelle sue opere alcune canzoni senza tempo (su tutte “A Song for You”). Paradossalmente l’unico brano un po’ sbiadito è la sua sorprendente rivisitazione di “Golden Ring”, misconosciuta chicca di Clapton da Backless (1978).
Con umiltà e riconoscenza il buon J.J. cerca di ricambiare i favori di Slowhand senza, in realtà, grande convinzione e trasporto, ma ci pensano le autografe “Bluebird” e “My Baby and Me” a riportare ad altissimi livelli una raccolta all’epoca sicuramente comprata a scatola chiusa dagli hardcore fan e che meriterebbe ben più ampia diffusione tra gli innamorati del Tulsa sound e del genere americana, di cui il “mancato tassista di Oklahoma” è stato un grande precursore.