Nelle nuove ripartenze che la musica improvvisata attua per restare viva e vegeta, questa possiamo ascriverla come una nuova forma di fusion, per meglio dire Nu-Fusion, come viene appellata dai maniaci della catalogazione ad ogni costo. Quindi cuore rivolto indietro di quarant’anni e mente dentro a questo scorcio di ventunesimo secolo. È così che suona il terzo album dei Resolution 88, uscito per la tedesca Légère Recordings, un mix inebriante di jazz e funk, per la prima volta inciso su di un multitraccia e per la prima volta con una sezione di fiati ed archi.
Addentrandoci nei solchi vellutati del Fender Rhodes Suitcase Mk1 come del Wurlitzer 200a o del Clavinet Honer D6, del sax ipnotico di Alex Hitchcock, del deep bass di Tiago Coimbra per arrivare alla batteria di Ric Elsworth e al conga-groove di Oli Blake, come non pensare ai maestri del genere che furono Herbie Hanckock, alle suggestioni hip-hop della luminosa stagione acid-jazz e al groove che diventa ragion d’essere e che va oltre le mode. Qui il groove è così spesso da diventare cosa tangibile, e l’unione tra jazz e funk provoca appagamento, quello stesso che da ragazzino provavo tutte le volte che sul piatto giravano band come Il Perigeo e gli Headhunters.
Un viaggio dentro il vinile, in tutte le sue declinazioni black: così il leader della band, il tastierista Tom O’ Grady, ha definito “Revolutions”, vintage e contemporaneo a braccetto, prova ne sia un brano come “Dig Depp” che vede rapparci su la voce di Marcus Tenney, o il suggestivo space-funk di “Matrix” fino al Pastorius periodo Weather Report evocato in “Runoit Groove”.
Un disco uscito in sordina ma che saluto come una manna dal cielo per chi, come me, si è nutrito e chi ancora si ciba di fusion e ne va fiero.