Di Resistance Is Futile, tredicesimo album in studio dei gallesi Manic Street Preachers, dicono praticamente tutto il titolo e l’immagine di copertina. Il primo è uno slogan che invita alla resilienza, mentre il secondo è uno scatto di fine Ottocento nel quale il fotografo austriaco Raimund von Stillfried ha immortalato uno degli ultimi samurai giapponesi. Evidentemente, dopo trentadue anni di carriera sulle barricate a parlare di politica e a fare critica sociale, è probabile che, giunti alla soglia dei cinquant’anni, i cugini James Dean Bradfield e Sean Moore e l’amico di sempre Nicky Wire si siano sentiti come dei guerrieri giunti in prossimità dell’ultima battaglia e abbiano avvertito la necessità di fermarsi un attimo a fare un bilancio del proprio percorso.
Dopo un silenzio discografico di quattro anni – un periodo piuttosto lungo per un gruppo prolifico come i Manics – i tre gallesi hanno capito che era inutile rinchiudersi in studio e incidere un album del quale non fossero pienamente convinti. E che i temi che hanno trattato per oltre tre decenni (uguaglianza sociale, egalitarismo, radicalismo, riformismo e ferma opposizione alla stratificazione sociale) sono ormai percepiti come antiquariato politico, difficilmente declinabili in un contesto nel quale i social network hanno ormai fagocitato ogni aspetto della vita quotidiana.
Insomma, per la prima volta, i Manics si sono sentiti sconfitti, o peggio: irrilevanti. Ma è stato tutto inutile, quindi? Assolutamente no, perché, alla stregua del guerriero raffigurato in copertina – “samurai” significa letteralmente “coloro che servono la nobiltà” –, i tre gallesi hanno combattuto al servizio di una causa nobile, per quanto utopica e ingenua questa possa sembrare agli occhi smaliziati di chi, nel 2018, crede ormai di avere viste tutte.
Ecco, sostanzialmente Resistance Is Futile è tutto qui. È un album nel quale i Manics decidono di ritornare dalla parti di Send Away the Tigers e Postcards from a Young Man, due dischi che hanno permesso al trio gallese di superare il momento di appannamento dei primi anni Duemila e di vivere una seconda giovinezza creativa, durante la quale hanno prima sistemato i conti con il passato (i fantasmi di Richey Edwards in Journal of Plague Lovers) e poi giocato con i generi (il Folk e l’Indie Rock in Rewind the Film, il Post Punk e il Kraut Rock in Futurology).
Tornati a lavorare con Dave Eringa, il produttore di fiducia, al loro fianco per tre lustri a partire da Gold Against the Soul, in Resistance Is Futile Bradfield Moore & Wire si riappropriano del sound che li ha resi celebri, quello strano miscuglio di Rock da stadio, Alternative e Glam, caratterizzato da una produzione cinematica al tempo stesso semplice e stratificata, una formula perfezionata nel 1996 nel capolavoro Everything Must Go, che li ha resi credibili compagni di tournée tanto degli Oasis quanto dei Guns N’ Roses.
Resistance Is Futile non è forse l’album Rock pieno zeppo di chitarre che James Dean Bradfield aveva promesso al momento di entrare in studio di registrazione, colpito da Prisoner di Ryan Adams. È un album sereno, nel quale i Manics sono più interessati a indagare il privato piuttosto che il pubblico, focalizzati a scrivere belle canzoni invece che coniare un nuovo slogan o innescare una nuova provocazione. Dolcezza e melodia: forse è questa la ricetta migliore per raccontare questo strano presente e al contempo continuare a combattere.