Se è assodato che la pandemia ha messo in seria difficoltà le band indipendenti e le piccole realtà, è altrettanto vero che questi due anni non sono stati una passeggiata neanche per i gruppi più strutturati. Lo sanno benissimo i Korn, che in una manciata di settimane si sono ritrovati nel poco invidiabile ruolo di disoccupati di lusso, con un tour cancellato e senza casa discografica. La band di Bakersfield non si è però persa d’animo, e dopo l’iniziale e comprensibile sconforto si è organizzata per dare un senso al tanto tempo libero a disposizione. Senza pressioni e senza scadenze, i Korn si sono così rifugiati nel loro studio, imponendosi una ferrea routine che ha permesso loro di concentrarsi esclusivamente sulla musica ed esorcizzare l’ansia da lockdown.
Il risultato è Requiem, il loro quattordicesimo album, un lavoro che conferma come la band di Jonathan Davis stia attraversando un momento artisticamente felice, aggiungendo un altro tassello al periodo di rinascita iniziato una decina di anni fa con il rientro nel gruppo di Head, e proseguito prima con The Serenity of Suffering (2016) e poi con l’ottimo The Nothing (2019).
Prodotto dalla band assieme all’ingegnere del suono Chris Collier, Requiem mostra come ormai i Korn abbiano finalmente trovato la quadra del proprio sound dopo un periodo di esperimenti più o meno riusciti (Untitled, Korn III: Remember Who You Are, The Path of Totality) e abbiano individuato in Issues e Untouchables i modelli di riferimento a cui guardare. Ecco quindi che le nove tracce che compongono il disco hanno sì quella peculiare componente di disperata vulnerabilità tipica dei migliori lavori della band, ma al tempo stesso anche una grande applicazione in fase di scrittura e arrangiamento, con un’attenzione maniacale per i ritornelli (non a caso in una manciata di episodi troviamo la firma dell’hitmaker Lauren Christy di The Matrix).
Ovviamente Requiem non è un disco pop nel senso stretto del termine, ma sotto lo strato di pece nera con cui sono sporcate le canzoni c’è un cuore che pulsa e che sprigiona ottimismo e speranza. È un atteggiamento in chiaro contrasto con il precedente The Nothing, ammantato dal dolore per la morte dell’ex-moglie di Davis. Qui troviamo invece un Jonathan più pacificato e risolto, che continua a mettere in discussione la propria vita (“Forgotten”) ma cerca di tenerne a bada l’oscurità.
È vero, forse Requiem non è un album riff-centrico come Korn e Life Is Peachy, ma Munky e Head sono comunque i protagonisti indiscussi del disco, dal momento che i loro intrecci chitarristici si confermano come uno degli elementi cardine del sound della band. E se non si loda mai abbastanza il lavoro svolto dietro le pelli da Ray Luzier (ormai un veterano, è con i Korn dal 2008), va sottolineato anche il coraggio mostrato per alcune scelte di arrangiamento, come dimostra il bridge di “Let the Dark Do the Rest”, dove il gruppo non ha paura a inoltrarsi in territori dream pop e post rock.
Nonostante un Fieldy a mezzo servizio (il bassista è in pausa dalla band per motivi personali ed è momentaneamente sostituito da Ra Díaz dei Suicidal Tendencies, ma le sue parti sono comunque presenti nell’album), con Requiem i Korn sono stati capaci di realizzare uno degli album più convincenti della loro carriera, dove canzoni come “Disconnect”, “Forgotten” e “Start the Healing” sono destinate a fare sicuramente parte delle scalette dei futuri concerti. Un traguardo davvero invidiabile per una band che potrebbe tranquillamente vivere di rendita e che dopo trent’anni non dovrebbe avere più nulla da dimostrare.