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REVIEWSLE RECENSIONI
Renewable Energy
The New Mastersounds
2018  (One Note Records)
JAZZ BLACK/SOUL/R'N'B/FUNK
8,5/10
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16/04/2018
The New Mastersounds
Renewable Energy
Registrato in due tempi, al The Living Room di New Orleans e agli Scanhope Sound di Littleton, Denver, le “Energie Rinnovabili” dei New Mastersounds non vi saranno d’aiuto se intendete usarle nelle vostre utenze domestiche, ma vi forniranno sicuramente una scorta di vigoria a base di jazz e funk da usare alla bisogna.

Quando ti trovi davanti ad un nuovo disco dei The New Mastersounds è come approdare in un porto dopo una violenta mareggiata.

Sì, le strade sono sempre quelle, te ne vai a fare la spesa, ritrovi i vecchi amici, insomma, sei a casa.

Una casa che ti accoglie come il suono dei The New Mastersounds fa da diciannove anni a questa parte, con quindici album, compreso questo nuovo “Renewable Energy”, il dodicesimo di studio appena licenziato dalla One Note Records.

Registrato in due tempi, al The Living Room di New Orleans e agli Scanhope Sound di Littleton, Denver, le “Energie Rinnovabili” dei New Mastersounds  non vi saranno d’aiuto se intendete usarle nelle vostre utenze domestiche, ma vi forniranno sicuramente una scorta di vigoria a base di jazz e funk da usare alla bisogna.

Che poi il jazz della crew britannica, costituita dal grande Eddie Roberts alla chitarra, Simon Allen alla batteria, Pete Shand al basso, Joe Tatton alle tastiere, coadiuvati in questo lavoro da Sam Bell alle percussioni, Mike Olmos alla tromba e Joe Cohen al sax, è quello che fa tanto incazzare i puristi del genere e già per questo è meritevole delle mie attenzioni.

Lo sapete no, per alcuni il jazz sembra quasi diventato roba da sale da concerto, e da bravi visi pallidi hanno pure la presunzione di irreggimentarlo: non deve uscire dai soliti binari, peggio poi se si ibrida con altri generi. Qui invece siamo al trionfo della contaminazione e a quel jazz che prendeva dagli altri linguaggi black che negli anni ‘60 seppero rinnovare un genere che si avviava ad essere rinchiuso in un museo; siamo dalle parti di Hancock e Davis per intenderci, ma anche di musicisti come Lou Donaldson e Kenny Burrell.

“Chicago Girl” è il biglietto da visita dell’album, puro boogaloo style, ma ci siamo appena sfamati come se fossimo ad un fingerfood party che subito l’up-tempo di “Tantalus” mette in chiaro le cose: il jazz non è un pezzo da museo, lo puoi forgiare come meglio credi, ne puoi fare una macchina da ritmo e ci puoi ballare sopra. E ballare ballo anche con “Gonna Be Just Me” che vede ospite alla voce la brava Adryon De León, bel pezzo soul funk psichedelico che pare uscito da un drug-film italiano di fine anni sessanta.

Mai sazi, andiamo in cerca del funk più sporco e lo troviamo nella cover della James Gang, “Funk 49” e questa volta è Eddie Roberts che fa sfoggio delle sue corde vocali. Ancora un up-tempo con una delle mie preferite, “Yokacoka” dove lo stile burrelliano (mi scuso per il terribile neologismo) di Roberts ha modo di mettersi in mostra. Ritmo e ancora ritmo con “Green Was Beautiful” e “Groovin’ On The Groomers”, un’abbuffata di soul e jazz per chi ama muovere i piedi, la blaxploitation di “Stash”, brano che prende in prestito le suggestioni hancockiane (aridaje) per farne un brano da perfetto film poliziesco americano. Bellissimo.

In tutto questo turbinio di stili non mancano i momenti più morbidi sublimati in “Hip City” e nella conclusiva “Swimming With MyFishies” due pezzoni fusion in stile Bob James, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, della maestria dell’ensemble.

Ancora una volta il quartetto di Leeds colpisce nel segno, riga dritto per la propria strada lastricata di qualità, scevra da qualsiasi moda ed hype del momento, convinti che la musica non sia solo e soltanto un passatempo o, peggio, un vendersi al primo offerente.