La tecnica, la meticolosità degli arrangiamenti e della scrittura sono il più caratteristico marchio di fabbrica dei Polyphia, cosa che rende le loro musiche fitte ed impenetrabili tanto sono luccicanti di precisione e accuratezza. In questo senso il dualismo tra arrangiamento e scrittura, che spesso in altri contesti discografici viaggia in binari paralleli ma distanti, qui si fonde come se la scrittura di un brano, immaginandosela come avvenuta su uno strumento singolo, fosse pensata per essere già un punto di arrivo obbligato dell’arrangiamento stesso.
Quindi riff impossibili da ridurre alla radice oltre la forma in cui li vediamo, cosa che obbliga l’arrangiamento a ricalcare ed incollarsi fedelmente allo stesso punto di partenza. Di conseguenza, se da un lato ciò aumenterà l’effetto finale degli incastri che si vanno a sommare su più strumenti, facendo crescere a dismisura lo stupore dell'ascoltatore a causa della tecnica, dall’altro i brani sono, sotto l’aspetto delle emozioni, immobili.
Non c’è traccia, per un ascoltatore come me, dell’aria che si crea tra gli intrecci di elementi diversi, che stupiscono non per il loro sommarsi in maniera meccanica, ma per quel nuovo elemento inaspettato che si crea quando due melodie e ritmi differenti si fondono creando il terzo fondamentale trait d’union che un attimo prima non esisteva.
Ma sono punti di vista. Perché le chitarre di Scott LePage e di Tim Henson sono scritte e suonate in maniera ineccepibile, il basso di Clay Gober non si perde un accento o una sincope, anzi, spessissimo evita di allungare le note e suona staccatissimo per far emergere i silenzi e donare ulteriore effetto alla fine dei fraseggi. Semmai riempie quei vuoti percuotendo le corde ferrose e slappando o plettrando con precisione chirurgica e asciugandosi il possibile nel suono del mix finale, cosa che rende il suo apporto nettamente più ritmico che sonoro. La batteria di Clay Aeschliman, nella stessa maniera, si diverte a costellare di fill, doppi colpi e trendaduesimi prendendo per mano ogni aspetto delle frasi chitarristiche (più che dei groove bassistici come normalmente ci si aspetterebbe), caratterizzandosi per un suono freddo e staccato che, se da un lato non emoziona per la totale mancanza di suoni ambientali, da un altro non crea sporcizia e rende il tappeto sonoro immacolato, perfetto per il conseguente riempimento di altri elementi. Il disco, in ogni caso, scorre senza alcun intoppo, alternando, tra pezzi molto simili, dinamiche e soluzioni ripetitive pur essendo tecnicamente di livello.
L’opening track “Genesis” gode dell’apporto del duo elettro hip hop Brasstrack e aggiunge al suono dei Polyphia un arrangiamento di stile fiatistico e dal sapore plastico che ben si sposa con la produzione dell’album. “Playing God”, invece, è un omaggio al virtuosismo sull’acustica elettrificata. Il mondo batteristico e la sua totale programmazione elettronica triggerata emergono in maniera evidente lasciando un po’ a bocca aperta, riuscendo a far abbassare l’asticella di tecnismi che sullo strumento di carne sono portentosi, ma vestiti di questo sapore allontanano un po'. Questo è il sound e la produzione.
“The Audacity” spicca per il felice incontro multiritmico tra il basso di Gober e il featuring del tastierista neo soul Anomalie, che regala armonie e sapori diversi rispetto agli incastri cui i Polyphia ci hanno abituato in tutto il disco. “Reverie”, dall’altra parte, è un pezzo in cui vince l’alternanza di pieni e vuoti estremi, cosa che lascia spazio alla poliritmia ed alla tecnica individuale, che gira attorno a delle idee di suono e mix riuscite, ma che sulla scrittura appaiono invece accostate spesso senza una vera logica armonica ma più per il gusto di sorprendere con la complessità della tecnica.
Sophia Black è il primo ospite vocale e lo fa tenendo il passo di una base strumentale perennemente ancorata agli instancabili riempimenti di sedicesimi e di pause. La produzione e il suono sono altissimi e riusciti, sempre che l’effetto debba essere lo stordimento e il non lasciare spazio all’ascoltatore per pensare. Cosa che invece accade con l’altro featuring vocale, il successivo Killstation che in “Memento Mori” permette invece momenti appena più larghi e di respiro, dando un’aria di pop e facilità che non si traduce tanto in semplicità tecnica ma di ascolto. A parere di chi scrive, il momento migliore del disco.
Stessa cosa si può dire per la successiva “Fuck Around And Find Out” (Feat $NOT), dove l’atmosfera si sposta verso l’Hip Hop. L’apporto del rapper è creativo, anche se sotto l’aspetto ritmico nel rap siamo abituati ad aspettarci più movimento, giochi di alternanza tra battere e levare, cosa che non avviene, in favore di soluzioni ripetitive che vanno a discapito del risultato finale. Buono per il movimento del disco, ma statico rispetto alla canzone in sé.
“All Falls Apart” torna sul terreno strumentale tanto caro ai Polyphia senza infamia e lode, cosa che fa apparire questo frammento come un mozzicone, di fatto introduttivo alla successiva “Neurotica”, a questo punto ennesimo agglomerato di sfarzo, per una striscia continua di puntini che sono i sedicesimi.
Tocca a Lil West smuovere gli animi del disco nella successiva “Chimera”, forse la migliore composizione, almeno per il mondo sonoro che crea nella parte introduttiva, fino al finale contributo del rapper, ridotto ad una breve partecipazione che lascia un leggero amaro in bocca.
C’è spazio anche per il riconoscibilissimo Chino Moreno, leader dei Deftones, il quale ha il merito di unirsi all’aspetto melodico del brano e di aggiungere uno dei suoi tipici momenti urlati e di sottofondo, di fatto portando il disco in un momento nuovo. Al contrario non sembra particolarmente ispirata la scrittura del brano stesso, nascosto dentro la solita produzione che da impeccabile sta lentamente sforando nell’invadenza di una gabbia dalla quale sembra impossibile uscire.
Steve Vai fa una sorta di cameo riconoscibilissimo nella successiva “Ego Death”, tipico terreno della band in cui emergono i due movimenti chitarristici, uno più epico e sonoro, l’altro più solistico, fino all’ultimo inaspettato di sole chitarre, che lancia la lunga e pomposa chiusura del brano e del disco.
Remember that you will die è un album estetico, plastico, suonato in ogni angolo, con acumi di tecnica che prendono il sopravvento in un ring di semicrome e doppi colpi. La sensazione complessiva però, costante per chi come il sottoscritto ascolta e cerca emozioni, è un effetto unico e lampante di stordimento, atto a dover sottolineare costantemente la pienezza di sé e del proprio ego. Tutto è pulito e al proprio posto, nessuna sbavatura o sporcizia, suonano cose difficili ma lo fanno riducendo al minimo i loro movimenti, come se lo scopo fosse farle apparire semplici, ma arrivando così ad una conseguenza paradossale, e forse inaspettata, di risultare fisicamente poco coinvolti e quindi poco trascinanti. Manca quel carisma che rende evidente la presenza di un musicista mentre suona qualcosa, il banale fatto di lasciare libera la propria espressività e la propria emotività di pari passo alle note che sgorgano.
Li ho ascoltati con la voglia di essere trascinato per il semplice potere delle canzoni, più che della tecnica, ma così non è stato. L’ho ascoltato, ho cercato e aspettato che cominciasse “quella” canzone che ti colpisce come un dardo e ti rende fragile, preparandoti il terreno per altre formule magiche che altrimenti ti sfuggirebbero senza arrivare a destinazione, ma purtroppo non l’ho incontrata.
Si nota poi, sbirciando tra i credits dei brani, come nella scrittura e nella produzione siano coinvolti circa quindici persone, compresi i quattro della band, e la cosa lascia un po’ da pensare. Insomma, in undici a dividersi una canzone scritta da quattro. Un dato esemplare che aderisce perfettamente al senso di distacco che trasmette l’ascolto, un po’ come se una canzone fosse di tutti, ma, in fondo in fondo, di nessuno.
I Polyphia sono tecnici, ipercostruiti, giovani sulla cresta dell’onda che piacciono e mietono vittime arrivando a calzare perfettamente con la ricerca social di immagini nitide, curate e stordenti. Sembrano perfetti tra le nuove uscite di un certo genere, con dei brani che ti arrivano addosso come in un frenetico alternarsi di degustazioni, ma tutte controllate e soffocate da una produzione tanto mastodontica da prevalere alla fine sulle canzoni stesse.