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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/11/2017
Bauhaus
Remade and remodelled
Un disco che dimostra una raffinatezza di potenza assolutamente inequivocabile e inconfondibile, tale da rendere povera e senza scopo la muscolarità dei contemporanei Killing Joke.
di Stefano Galli steg-speakerscorner.blogspot.com

I Bauhaus rischiano l’estinzione, per lo meno visuale. I due DVD ufficiali commercializzati tempo fa hanno una qualità audio e/o video al limite del sufficiente. Mi chiedo se non sia possibile un loro restauro.

I libri a loro dedicati - sssenzialmente due: quello di Ian Shirley, Dark Entries - Bauhaus And Beyond, e quello di Andrew J Brooksbank, Bauhaus: Beneath The Mask – sono difficili da reperire, e a che prezzo poi?

Certo sto occupandomi di artisti in ambito musicale, ma l’aspetto visuale è oggettivamente confermato sin dall’ispirazione del loro nome, mentre i loro riferimenti d’esibizione dal vivo sono, come da loro ribadito (sebbene in posizione quasi ossimorica rispetto all’essenzialità dei riferimenti alla scuola germanica, nata a Weimar, ispiratrice) anche fonograficamente, taluni capisaldi glam che richiedono non solo orecchie ma anche occhi per apprezzarli appieno.

C’è questo piccolo mistero: perché io e Daniele dobbiamo contattarci telefonicamente quella sera, mi pare a cavallo fra 1981 e 1982? Non ricordo proprio.

Rammento, però, che fu una telefonata proficua[1]. Argomento della conversazione il fan club, o meglio il materiale del fan club gestito dalla sempre paziente Stella Watts.

Un fattore cruciale e scriminante nella musica dal punk in poi è il seguente: se l’artista si conosce attraverso il singolo di esordio oppure a motivo del successivo album.

Per i Bauhaus il problema non mi si pone, poiché me li fa conoscere Daniele e, quindi, assommo (e compro) i formati vinilici nei primi mesi del 1981: questo dettaglio è certo, perché a Bologna, all’ex Manifattura Tabacchi, arrivai al concerto di luglio (venerdì 17, per i superstiziosi) con tutte le dotazioni del caso: non poche.

Nove minuti e oltre di “Bela Lugosi’s Dead” sono l’esordio indelebile.

Sorta di contraddizione in termini, convivono le linee nette promesse dalla ditta musicale del quartetto di Northampton con gli svolazzi gotici della loro celebrazione del Principe delle tenebre ematiche (o meglio del suo massimo interprete).

E allora, “a studiare!”

Bela e Walter Gropius[2], ché non siamo mai stati pigri o apatici.

Ma poi si vira di formato, abbandonando il 12” con il per me (anche oggi) cruciale dialogo fra amore[3] e – al finale ultimo fra loro congiunte – morte di “Dark Entries”: non più liquido cadere bensì urlo accelerato avvolto in quella copertina il cui colore di fondo è inequivocabilmente color sangue secco.

Immacolata è, contraddittoriamente, la tela a sette pollici di “Terror Couple Kill Colonel”, dove la band si avvale di un piccolo fatto di cronaca quale fonte di ispirazione.

Tralasciando le varianti più o meno rare dei singoli, nell’ottobre del 1980 si arriva all’album di debutto, In The Flat Field, che non contiene alcunché di déjà entendu, proprio come si faceva (o si doveva fare?[4]) ai tempi del punk.

Un disco che dimostra una raffinatezza di potenza assolutamente inequivocabile e inconfondibile, tale da rendere povera e senza scopo la muscolarità dei contemporanei Killing Joke.

È quindi inevitabile la diaspora dei delusi ascoltatori (e non fedeli seguaci) di basso rango, i quali non si ritrovano nel successivo percorso artistico, davvero eclettico, dei Bauhaus: non che sia tutto oro quel che riluce, ma fermarsi al primo ostacolo non giova.

Ecco quindi che – volutamente io abbandono la cronologia – anche solo sforzarsi su “un” Antonin Artaud non è mai energia sprecata, mentre i croon-ismi dedicati all’uccisione del Signor Chiardiluna (ammiccamenti futuristici, anche?! Oppure hanno letto l’episodio di Ranxerox con Mister Volare?) anticipano future strade (Love And Rockets[5]).

Al solito, io mi fermo su quel manifesto dudovich-iano dai colori caldi eppur tenui che è l’impenetrabile “King Volcano” dai tratti – inevitabili – del miglior incrocio fra Mangiafuoco e Nettuno.

Anche oggi, in fondo “all we ever wanted was everything”.

[1] Dalla cabina di un ristorante ben noto (non alla moda) di Milano: Romani (o Tre stelle da Romani) in una traversa di Corso Sempione.

[2] Scoprendo che quel Mies van der Rohe di cui ti parlava al liceo l’architetto Ivo Ceccarini ti aveva, in fondo, già reso angolare e non allineato.

[3] In quanto è la sintesi di come vedo un rapporto amoroso leale: il reciproco abbattimento del proprio “orgoglio scudato” (“shielded pride”, appunto) per vedere con reciproca fiducia il proprio lato oscuro (“until exposed became my darker side”: in una prosa piuttosto barocca per la Lingua del Bardo).

[4] Sex Pistols, The Clash e Damned, infatti, tutti volenti o nolenti non offrirono un primo (o unico) album così.

[5] Con tutto il fumetto che ne consegue, vero?