Un titolo e una copertina che dicono tutto: Chrissie Hynde, per quanto sgualcita dall’età (sono ben settantadue anni), è viva e vegeta e lotta insieme a noi. Lo si era già capito dal precedente Hate for Sale che la ragazza che, decenni fa, conquistava il mondo con Brass In Pocket, non aveva alcuna intenzione di appendere la chitarra al chiodo. Quel disco, come il precedente Alone, la fotografavano con qualche ruga in più, ma ancora scalpitante e capace di scrivere canzoni rapide e intense, figlie di quel mix di urgenza punk, visione new wave e melodie pop, che ha reso i Pretenders una band in grado di scalare le classifiche, senza, tuttavia, mai perdere quel piglio rock, da sempre amato anche da chi non è aduso a sonorità mainstream.
Negli ultimi dieci anni circa, Chrissie Hynde ha soddisfatto tutti i suoi capricci creativi pubblicando album sia come artista solista sia con la casa madre, dando alle stampe anche un disco onesto e di ottima fattura (Fidelity del 2010) accreditato a JP, Chrissie e Fairground Boys, frutto della relazione sentimentale con il songwriter gallese JP Jones. Eppure, il materiale migliore lo ha sempre riservato alla sua storica band, come dimostra questo nuovo, riuscitissimo Relentless.
Della formazione originale restano solo Chrissie Hynde e Martin Chambers, ma la presenza di un chitarrista coi fiocchi come James Walbourne, che insieme alla Hynde firma tutti i brani in scaletta, ha aggiunto nuova linfa vitale al progetto. Relentless è un album ostico, scorbutico, nervoso, in cui le melodie pop restano sottotraccia e sono scartavetrate da fremente elettricità, e in cui solo a tratti si possono cogliere echi della band di un tempo. A prevalere, infatti, è un mood malinconico e ossianico, innervato da un suono secco e frontale, che lascia poco spazio alla luce del sole in favore, invece, di cupe atmosfere, in cui a prevalere sono tristezza e irrequietezza.
E poi, quella voce corrosa dalla vita, ancora capace di variazioni e accelerazioni sensuali, che il tempo, però, ha ulteriormente ispessito e, in qualche modo, reso ancora più seducente.
Relentless è un disco che ha bisogno di qualche ascolto per decollare, a causa, come si diceva, di un mood ombroso, ma cresce progressivamente, dimostrando che la Hynde sa scrivere ancora grandi canzoni, anche quando suggerisce una sorta di resa esistenziale, cantando nell’iniziale e ispida "Losing My Sense of Taste": «Non mi interessa nemmeno il rock and roll / Tutti i miei vecchi brani preferiti sembrano vecchi e stanchi».
Sarà. Ma nella scaletta del disco nulla suona vecchio e stanco, e tutte le canzoni, dalla prima all’ultima, si fanno ricordare. Ci sono, ovviamente, brani che filano dritti, ruvidi, ma carichi di melodia, come "Let the Sun Come In", un brano pop rock che cita i R.E.M. nel riff di chitarra, mentre, nel ritornello, ricorda all’ascoltatore quali sono le radici della band, messe a fuoco anche nella spigolosa dolcezza della splendida "A Love". Elettrica e potente, "Domestic Silence", col suo passo cadenzato, prende le sembianze di un muscolare rock blues (splendido lavoro alla ritmica di Walbourne), mentre "Merry Widow" sprofonda nel cuore della notte, fondendo mirabilmente Patti Smith e i Velvet Underground di "All Tomorrow’s Parties".
Il piatto forte in scaletta è però rappresentato dalle ballate, un più bella dell’altra, a partire dalla strascicata e al contempo fluttuante "The Copa" e dalla successiva "The Promise Of Love", struggente e bluesy, in cui la Hynde sul velluto della malinconia, apre alla speranza e canta: «Dall'oscurità e dal dolore, trasforma la tristezza in gioia e il passato in domani».
Il disco si chiude "I Think About You Daily", lentone strappa lacrime, avvolto da una sezione di archi arrangiata e diretta da Jonny Greenwood dei Radiohead. Una chiosa semplicemente fantastica, per un disco che mostra le due facce di una venerata veterana del rock and roll, la cui integrità nessuno può mettere in discussione: da un lato, un tocco nostalgico e quella tenerezza da cui nascono, anche se in penombra, splendide melodie pop, e dall’altro, quell’urgenza elettrica che non smette di vibrare, nonostante il tempo che passa, nonostante le rughe sul volto.
Un ritorno coi fiocchi.