C’è un podcast, ancora in corso di svolgimento nel momento in cui scrivo, che si chiama A domani, è stato realizzato da Niccolò Agliardi e racconta la tragica vicenda di Giacomo Sartori, un ragazzo di 29 anni che, a seguito del furto del suo zaino in un locale milanese di Porta Venezia, dove era a bere con gli amici, scomparve senza lasciare tracce, per essere poi ritrovato una settimana dopo, impiccato ad un albero nella campagna pavese. È una vicenda del settembre 2021 ma, sarà stata la pandemia che portava giocoforza a seguire ben altre notizie, all’epoca non l’avevo minimamente intercettata.
È difficile dire che cosa mi stia colpendo così tanto in questa storia, per certi versi così ordinaria. Probabilmente è proprio il fatto che sia così: ordinaria, che non abbia cioè nulla, proprio nulla, per alimentare la nostra propensione un po’ morbosa alle disgrazie altrui. Non può essere rubricata sotto il cosiddetto “True Crime”, perché non c’è stato nessun crimine; e neppure può essere considerata una vicenda misteriosa perché, come si può anche vedere dal numero di articoli ad essa dedicata, non c’è nessun mistero da risolvere. Si pensava che ci fosse, certo. Ma non c’è.
Ora, se sto parlando di questa cosa adesso, non è tanto per la scoperta che mi sia entrata più dentro di quello che avrei ritenuto possibile, ma è soprattutto perché è a questa vicenda che mi è venuto da pensare dopo aver ascoltato per la prima volta Relax.
Attenzione, il suicidio con questo disco non c’entra e perdonatemi se accostare una storia così cupa ad un disco appena uscito potrebbe sembrare fuori luogo. Il fatto è che abbiamo passato anni a portare avanti la versione secondo cui tutti questi cantautori “Post Indie” o “It Pop” che dir si voglia, di cui Calcutta è stato indiscutibilmente un traghettatore, se non proprio un capostipite, avessero come principale cifra identitaria quella della superficialità e della frivolezza.
Abbiamo descritto e a tratti stigmatizzato quel loro essere sempre in punta di piedi nei confronti della realtà, quel loro guardare la vita dal di fuori, consapevoli dei propri limiti e della possibilità del fallimento, ma mai davvero intenzionati a guardarsi dentro, ad interrogarsi sul perché delle cose e sul rapporto tra sé e il mondo. L’abbiamo chiamata “età del disimpegno”, contrapponendola a quella del cantautorato anni Settanta, eccessivamente mitizzata ed ormai cristallizzata in un iperuranio inarrivabile.
Ecco, con Relax è successo che Edoardo D’Erme da quella scena si è smarcato in maniera più o meno esplicita, abbandonando anche un certo tipo di estetica sonora, e facendo nel complesso qualcosa di molto diverso, quasi spiazzante, per tutti coloro che hanno avuto in Mainstream ed Evergreen due autentici lavori generazionali.
Ci sono un paio di interessanti notizie di contesto da mettere in evidenza, per inquadrare meglio il quarto album dell’artista di Latina.
Innanzitutto sono passati cinque anni da Evergreen e cinque anni, nella dittatura del presente che ci troviamo a vivere, equivalgono ad un’era geologica. Mantenere la calma, esercitare la massima libertà sulla propria carriera senza dovere sottostare a tutti i costi agli imperativi dell’algoritmo e alla regola non scritta per cui se non fai uscire un singolo al mese scompari, beh, è sicuramente una nota di merito non indifferente.
La seconda notizia è che il disco è uscito all’improvviso, o comunque con un preavviso molto limitato: prima l’annuncio del tour nei palazzetti (sold out in pochissimo tempo, a dimostrazione che, almeno per il momento, l’hype è ancora bello forte) poi, con solo una settimana di anticipo, la data ufficiale della release.
Niente singoli, niente contenuti spalmati periodicamente come da moda degli ultimi anni, cosa che va a vantaggio delle dinamiche social ma annacqua inevitabilmente il messaggio generale.
Con Relax si ritorna dunque all’album in quanto tale, discorso coerente e coeso da maneggiare nella sua interezza; anche questo, dato il periodo, non può che fargli onore.
In tutto questo, il Calcutta un po’ cazzone che raccontava il disagio con ironia e disincanto, senza prendersi molto sul serio, conscio forse del fatto che di tempo per risolvere i problemi e trovare il proprio posto nel mondo ce ne sarebbe stato fin troppo, è completamente sparito.
C’è stata la pandemia, la morte della madre, e probabilmente un lungo itinerario di riflessione che lo ha reso più maturo ma anche più disilluso. L’unico punto in cui un certo distacco ironico sembra fare capolino è l’iniziale “Coro”, che come dice il titolo, è una composizione vocale che nelle armonie sta a metà tra il Folklore contadino e le suggestioni battistiane più sperimentali e ricercate. Si parla del valore superfluo dei soldi, dell’inutilità di Sanremo e in generale di quanto sarebbe bello se la vita fosse più autentica e meno soggetta alla dittatura dell’immagine.
Il successo non basta, non riempie quel buco che tutti ci portiamo dentro e che ci illudiamo non sia così importante riempire. Ma avere trent’anni a cosa serve? Cosa c’è di così urgente da costruire? Quali sono gli obiettivi che ci si può porre quando tutto sembra sia già stato detto e scritto? C’è l’ammissione desolata che “siamo tutti falliti”, e che quindi è inutile mettere in mostra la propria vita illudendosi di essere speciali. C’è il desiderio di compimento affettivo che si scontra tuttavia col fatto che “poi hanno chiuso il mondo”, l’angoscia di un universo alla deriva che mette inesorabilmente di fronte al fallimento delle aspirazioni.
In qualche recensione si è parlato di “disperazione” ma non credo sia la parola giusta. È piuttosto lo svegliarsi da un lungo sogno, l’accorgersi che quella rivoluzione Pop su cui in tanti avevamo scommesso è probabilmente già finita e non lascerà traccia alcuna.
Il vestito musicale va in quella direzione: c’è la produzione di Giorgio Poi, che in sé è ottima, ma che cancella dietro una patina di suoni pieni ed avvolgenti tutta quell’estetica dimessa e un po’ guascona che di quella rivoluzione era divenuta cifra stilistica.
Le canzoni di Relax sono scritte benissimo, riconfermano Edoardo come l’autore talentuoso che è sempre stato (lo dimostrano anche i brani che ha scritto per altri, del resto) ma sono fin troppo appiattiti sullo standard Pop di questi ultimi anni, tra citazioni da Anima latina, linee melodiche a metà tra Dalla e Venditti, rivisitati secondo la lezione ormai classica di Tommaso Paradiso; il tutto tra malinconie pianistiche, basi incalzanti di Synth e chitarre effettate, e ritornelli che rinunciano all’effetto Vasco Rossi delle varie “Pesto”, “Paracetamolo” e “Frosinone” ma sono ugualmente studiati nel dettaglio per scalare le classifiche (da questo punto di vista, “2 minuti” e “Controtempo” sono decisamente significativi).
Ha reinventato un genere, per alcuni l’avrebbe addirittura creato, e per una sorta di malsana eterogenesi dei fini ha dato vita ad una pletora di imitatori che sono probabilmente la causa principale se oggi l’espressione “It Pop” sembra quasi una bestemmia.
Oggi, che Trap, Hip Pop e affini dettano legge tra i giovani, Edoardo ha dato semplicemente voce al suo essere un autore di canzoni, alla scrittura come sfogo terapeutico, forse, o più probabilmente come dimensione dell’esistenza. Non importa che su questo disco ci siano soluzioni sentite mille volte, che abbia seguito pedissequamente la strada maestra del cantautore impegnato di ultima generazione, quello che se vuole avere successo l’ammiccamento ruffiano lo deve fare per forza.
Non importa davvero, perché Edoardo è bravo e queste canzoni lo dicono, alcune meglio di altre: “Preoccuparmi” e “Allegria”, per esempio, riprendono quella vena un po’ più ricercata che nell’album precedente avevamo ascoltato su “Nuda nudissima” e ci ripetono per l’ennesima volta che se un pezzo funziona, ogni altro discorso risulta superfluo.
Non metterà d’accordo tutti e potrebbe scontentare quei fan che avrebbero voluto che il tempo non passasse mai; dall’altra parte, questo è il disco perfetto per chi ha capito che fare i conti con la realtà dopo essersi svegliati dal sogno può non essere piacevole, ma che non c’è alternativa, e soprattutto che ci può essere un destino diverso rispetto a quello a cui Giacomo, e tanti come lui, non sono riusciti a sottrarsi.
Il pubblico di Calcutta oggi è composto da giovani adulti che ci stanno provando, a camminare sulla strada che si sono scelti; Relax è la colonna sonora migliore per farlo e, chissà, potremmo veramente riuscire ad evitare di parlare di lui come una meteora, per quanto consistente, della scena italiana. Tra altri cinque anni forse ne sapremo di più.