Benjamin ha undici anni, anche se ne dimostra al massimo otto, e gli occhi di un cane rabbioso. Il padre Jeremiah, ossessionato dall'apocalisse, ha deciso di vivere nei boschi isolato dal resto del mondo, cosí lui si aggira per il paese affamato, con addosso solo un maglione che pare appeso alle spalle. Alla fine qualcuno lo segnala a Pete Snow, l'assistente sociale che lavora in quelle valli isolate del Montana. Pete ha commesso tutti gli errori possibili con la propria famiglia, e per questo ha giurato a sé stesso di non perdere nemmeno uno dei ragazzi che gli sono affidati; non importa se nel caso di Benjamin ciò significa aprirsi un varco nella nebbia di fanatismo e violenza che lo circonda. Ma a un certo punto Jeremiah viene preso di mira dai federali, e Snow si ritrova coinvolto in una caccia all'uomo dalla quale nessuno uscirà uguale a prima.
Qualcosa non convince nella lettura di Redenzione, esordio sulla lunga distanza di Smith Henderson e romanzo incensato da buona parte della stampa americana. Le premesse erano più che accattivanti: una trama originale, la possibilità di abbracciare registri di narrazione diversa (il thriller, l’introspezione psicologica, il tema sociale), un’ambientazione che vede protagonista l’America rurale, quella però degradata e violenta, che mi ha ricordato Un Gelido Inverno, film per la regia di Debra Granick e interpretato da una splendida Jennifer Lawrence.
Eppure, c’è qualcosa che non quadra, qualcosa che a fine lettura ci fa pensare più a un’occasione perduta che a un romanzo da tener in serbo fra le migliori letture dell’anno. La prosa di Henderson, infatti, talvolta manca di fluidità, come se la necessità primaria dello scrittore fosse quella di stupire a tutti i costi e di esibire un lessico (forzatamente) ricercato; così come il cambio di prospettiva (l’alternarsi fra la narrazione che vede Pete protagonista e l’altra, in cui è centrale la figura della figlia), disorienta il lettore, invece di avvincerlo.
La lunghezza eccessiva del romanzo, poi, e l’attenzione quasi maniacale alla descrizione degli ambienti, toglie pathos a una trama che non è priva di colpi di scena, ma che in realtà non riesce mai a decollare veramente. E poi c’è l’intreccio narrativo, complesso, certo, ma talvolta un po' confuso, come se Henderson avesse tanta carne da mettere al fuoco ma poca pazienza per poterla cucinare adeguatamente (certe strade vengono imboccate, ma mai percorse fino in fondo: l’alcolismo del protagonista, la sua storia d’amore con la bella assistente sociale, etc.).
Il risultato finale è un libro che alterna momenti eccellenti ad altri non propriamente indimenticabili, e se è vero che alcune figure (l’invasato Pearl, l’irrequieta Rose/Rachel) sono tratteggiate con partecipazione e buona introspezione psicologica, nel complesso il romanzo non raggiunge mai i vertici di epicità di Ruggine Americana, capolavoro di Philipp Meyer, a cui qualcuno, inopinatamente, ha voluto paragonare Redenzione.