Tenersi lontano sei anni dalle scene (l’ultimo album, Wick, risale al 2017) non è stata una buona mossa strategica per una band che aveva tutto per sfondare, ma che è rimasta sempre un po’ ai margini della scena. Certo, i giorni del Covid e del conseguente lockdown non hanno favorito la continuità, peraltro già messa in discussione da cambi di line up e incomprensioni interne, che hanno portato il gruppo originario di Atlanta (Georgia) sull’orlo dello scioglimento.
Oggi, i Royal Thunder tornano a pubblicare un nuovo album con una formazione che comprende la cantante/bassista Miny Parsonz, il chitarrista Josh Weaver e il batterista Evan Diprima, rientrato all’ovile dopo aver abbandonato la band nel 2018. Che il tempo trascorso potesse produrre dei cambiamenti nel sound era un fatto da mettere in conto, e così è stato. I Royal Thunder suonano coesi e compatti come sempre, ma dopo la lunga pausa, questo quarto album è un rientro in punta di piedi.
Rebuilding the Mountain è un ascolto molto riflessivo, indicativo delle incertezze e dell'instabilità di formazione che la band ha attraversato in questi sei anni; la durata di quaranta minuti, breve rispetto alle precedenti pubblicazioni, fa pensare, poi, a un accorto understatement, alla volontà di riaffacciarsi sulle scene con somma circospezione, come se fosse un nuovo corso, un nuovo inizio, con un percorso e una fama tutte da ricostruire (esplicito, in tal senso, il titolo dell’album).
Questo atteggiamento si manifesta anche nella struttura dei brani, in cui il rock blues psichedelico della band assume un’esposizione più sobria. Le singole canzoni sono più brevi di quelle degli album precedenti, le esecuzioni sembrano poggiarsi su soluzioni più melodiche, aprendosi a momenti delicati e reggendosi su costruzioni maggiormente contemplative e decisamente meno lineari. Una scossa di assestamento, insomma, rispetto al suono più energico dei precedenti lavori; tuttavia, se è vero che la performance risulta meno esplosiva, la musicalità mantiene intatta tutta la sua chimica. Rebuilding the Mountain inizia con i cinque minuti di "Drag me", la canzone più lunga del set: andamento lento, improvvise accelerazioni, accordi cupi, atmosfere psichedeliche rarefatte e la voce bassa della Parsonz che suona incredibilmente vulnerabile nell'introduzione della canzone, attirando immediatamente l’attenzione dell'ascoltatore. Davvero, un gran bel brano, che mostra le doti della vocalist, la cui espressività, quel timbro roco e possente, risulta meno energica, ma non per questo meno seducente.
Una cosa che rende Parsonz una vocalist così talentuosa è, poi, la sua versatilità, come si coglie molto bene nella successiva "The Knife", vibrante rock psichedelico, in cui la cantante torna ai vecchi registri e graffia con fremente rabbia. Così come succede nell’intensa "Now Here-No Where", cantato urlato e angosciato, ritmica aggressiva e distorte chitarre noise.
A parte questi intermezzi che richiamano l’hard rock dei primi lavori, ciò che rappresenta la vera novità di Rebuilding the Mountain è il lato più vulnerabile del cantato della Parsonz (lo splendido incipit di "Live To Live" mette in evidenza un soprano scintillante e spogliato di ogni artificio) e la capacità di forgiare melodie dal retrogusto evocativo e malinconico, mantenendo una buona dose di elettricità, ma senza mai alzare la potenza di tiro ("Twice", "Fade"). Ne risulta, così, una scaletta equilibrata, in cui riff e melodia, rock e psichedelia, ombre e paesaggi illuminati convivono in perfetta armonia, senza sbavature, ma con rinnovata consapevolezza.
Rebuilding the Mountain, in definitiva, rappresenta una nuova fase per i Royal Thunder, a cui il lungo iato sembra aver giovato soprattutto a livello di scrittura. Niente da dire sulla precedente discografia, per carità, ma l’impressione è questo album abbia trovato una maggiore ispirazione e diversificato la proposta, rendendo il suono della band americana più vario e intrigante, e aprendo la strada a un nuovo percorso che potrebbe portare a una maggiore visibilità. Sempre che non facciano passare altri sei anni per pubblicare un nuovo lavoro.