L’ultimo album dei Fates Warning, Long Day Good Night, che risale al 2020, aveva suscitato nei fan della band americana, attiva dalla prima metà degli anni ’80, più di un dubbio che si fossse trattato dell’ultimo capitolo della loro lunga storia. E se è vero che è stato lo stesso Ray Alder a suggerire di non avere più interesse a proseguire con la casa madre, è altrettanto vero che il cantante non ha perso la voglia di comporre nuova musica. Per farlo, non poteva che scegliere, come compagno d’avventura, il suo alter ego Jim Matheos, che dei Fates Warning è il chitarrista nonché storico fondatore.
I due si sono trovati un nome splendido sotto la cui egida presentarsi al pubblico (North Sea Echoes) e hanno deciso, pur senza tradire completamente il loro dna, di muoversi per coordinante musicali diverse, più vicine a quelle degli OSI (band di cui il chitarrista è membro), rilasciando un disco, Really Good Terrible Things, che assume le fattezze di un album oscuro e lunatico, non pesante in senso metallico ma certamente in senso emotivo, si. Un disco prevalentemente crepuscolare e malinconico, che testimonia comunque quello che sembra essere un binomio inscindibile, in cui la chimica non viene mai a mancare, anche quando, come nello specifico, le consuete sonorità vengono accantonate per nuove forme espressive.
Il disco si apre con la dolce amara "Open Book", e si percepisce nell’aria qualcosa di stranamente famigliare, per quanto l'ambiente circostante abbia assunto un aspetto diverso. Alder ha ancora quella voce immediatamente riconoscibile, che si muove commossa e leggermente ispida sul perfetto mix melodico e atmosferico creato da Matheos. La ritmica pulsante e il morbido tappeto di synth di "Flowers in Decay" ti fanno, però, capire che questo non è un tradizionale album dei Fates, avvicinando i due, semmai, a una versione a stella e strisce dei Depeche Mode. L'elettronica, la voce arresa di Alder e la chitarra pulita di Matheos creano un'atmosfera dolce, cinematografica, quasi fragile.
"Unmoved" è, invece, una ballata acustica, che si sviluppa a filo d’acqua, sull’oceano delle emozioni: è nostalgica, morbida come una carezza, struggente come una lacrima di fronte alla bellezza inarrivabile di spazi aperti. Se "Throwing Stones", poi, è un unghiata di malinconia sul cuore, che sanguina sulle note di un ritornello di cristallina perfezione, "Empty" è più cupa e notturna, e l’uso dell’elettronica, come contrappunto della chitarra distorta, porta ancora dalle parti dei Depeche Mode, così come in "Where I’m From", mentre "The Mission", il brano più movimentato del lotto, recupera scorie new wave anni ’80.
Chiudono i quasi quattro minuti di "No Maps", un brano quasi impalpabile nella sua fragilità, eppure tale da raggrumare in tre minuti e quarantadue secondi un doloroso senso di disturbante mestizia, che lascia senza fiato.
Difficile che un disco come Really Good Terrible Things possa far breccia nel cuore degli adepti al mito Fates Warning, nonostante testimoni l’inesauribile vena creativa del duo che ha fatto la storia di quella grande band. Per tutti coloro che non possiedono un retroterra da fan con cui fare i conti, questo album è, invece, consigliatissimo. A patto che siano disposti ad accettare il groppo in gola e il salmastro scorrere delle lacrime sulla guancia.