Come sottolineato nelle note di copertina da Jesse Jarnow, uno che sui Grateful Dead la sa lunga (vedi il saggio Heads: A Biography of Psychedelic America), la band di Jerry Garcia non si è mai sentita a proprio agio all’interno di uno studio di registrazione, dal momento che dei 13 album registrati tra il 1967 e il 1989, almeno la metà ha avuto una lavorazione a dir poco problematica. Tra lungaggini varie, sforamenti di budget, incomprensioni con i produttori e un’endemica incapacità di ricreare, in un ambiente asettico come lo studio di registrazione, quell’atmosfera di rilassato divertimento che sul palco veniva così naturale, la band di San Francisco non ha quasi mai consegnato ai propri fan degli album che fossero capaci di rappresentare in pieno quello che erano capaci di fare dal vivo. Normale quindi che, capìta l’antifona, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, dopo il fiasco di Go to Heaven, i Grateful Dead si siano tenuti lontani il più possibile dallo studio di registrazione e abbiano preferito dedicarsi invece all’attività concertistica, con tournée sempre più imponenti e sfiancanti (e che alla lunga hanno messo a repentaglio la salute di Jerry Garcia), baciate da un successo di pubblico senza precedenti.
Nel corso degli anni, però, la band non aveva smesso di comporre e, galvanizzata dal successo di In the Dark, a partire dal 1992, aveva cominciato a proporre in concerto una dozzina di canzoni inedite, con l’obiettivo di includerle poi in un nuovo album. Le lavorazioni al disco iniziarono infatti nel febbraio del 1992 ed andarono avanti fino all’autunno del 1994, nello spazio lasciato libero dall’incessante attività dal vivo (nel box set So Many Roads 1965-1995 sono presenti delle demo registrate nel febbraio 1993), ma quando fu il momento di fare sul serio e chiudere il disco, Jerry Garcia perse interesse nel progetto e dopo un paio di sessioni nella primavera del 1995 la cosa finì nel dimenticatoio. La morte del chitarrista, avvenuta nell’agosto dello stesso anno, fece il resto, mettendo la parola fine sulla storia trentennale della band californiana.
Ed è un peccato, perché il repertorio sul quale i Grateful Dead stavano lavorando nei primi anni Novanta era senza dubbio molto valido, come testimoniano le registrazioni raccolte in Ready or Not, che, attraverso una selezione di nove esecuzioni dal vivo, tenta di ricostruire almeno in parte la scaletta di quello che sarebbe dovuto essere il quattordicesimo album della band. Testate dal vivo svariate volte, le canzoni qui proposte ovviamente hanno una struttura molto più dilatata di quella che avrebbero avuto se fossero state registrate in studio, ma, al netto dell’ampio spazio riservato all’improvvisazione, si intravede una grande solidità di scrittura.
Tra i titoli più riusciti, senza dubbio ci sono “So Many Roads”, un mid-tempo dalla melodia polverosa nel quale splende la chitarra di Jerry Garcia, ed “Eternity”, un Boogie Rock composto da Bob Weir che sembra uscito da classici di metà anni Settanta come Wake of the Flood o Terrapin Station. Non male neanche “Liberty”, che apre il disco (costruita su un testo che Robert Hunter aveva offerto anche a Bob Dylan), e “Corinna”, che inizia con un Synth che ricorda “Eminence Front” degli Who per poi trasformarsi in una torrenziale jam da 17 minuti. Ovviamente non è tutto oro quello che luccica, dal momento che sia il Funky di “Easy Answers” sia il Latin Rock di “Samba in the Rain” non sono invecchiati proprio benissimo, ma sono peccati veniali, redenti ampiamente da un gioiello come “Days Between”, l’ultima canzone mai scritta dalla premiata ditta Jerry Garcia/Robert Hunter. Composta alle Hawaii nel gennaio 1993, durante un momento molto sereno della vita privata del chitarrista, “Days Between” racconta con trasporto i giorni della giovinezza perduta, in particolar modo l’estate del 1961, quando Jerry, Robert e gli amici Barbara “Brigid” Meier e Alan Trist passavano il tempo a Menlo Park, nella Baia di San Francisco, a parlare di libri e suonare Bluegrass. Con una sezione centrale costruita su uno spettacolare assolo di Jerry Garcia, “Days Between” è un commiato agrodolce, il finale perfetto di uno strano viaggio durato trent’anni e che ha avuto un impatto come pochi altri nella storia della controcultura americana.