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REVIEWSLE RECENSIONI
Raìse
Elli De Mon
2025  (Rivertale Production)
AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS ROCK
8/10
all REVIEWS
21/02/2025
Elli De Mon
Raìse
Il nuovo capitolo discografico di Elli De Mon stupisce: dimenticate le solite etichette, nel caso specifico ancora più vetuste. La riscoperta delle proprie radici, la decisione di fare i conti con la propria tradizione, l’immersione nei luoghi della propria vita. Con la Storia di Orso, da cui prende il nome la cittadina di Santorso, la musicista veneta fa i conti con la sua storia e ce la dona.

La leggenda di Sant’Orso (da cui il nome della cittadina vicentina di Santorso)

L’agiografia di questo Santo (la cui storia però non si trova nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, ndt.) è molto intrigante: durante il regno di Carlo Magno, giunse nel Vicentino sul monte Summano, Orso, un viandante di origine francese.

Sul capo di Orso, appartenente a una nobile famiglia, gravava una orribile profezia secondo la quale avrebbe ucciso il padre. Per tale motivo il ragazzo venne inviato alla corte di Carlo Magno per essere istruito nell'arte della cavalleria. A seguito delle abilità militari dimostrate, gli venne comandato di recarsi in Dalmazia, dove sconfisse le armate del Re succedendogli al trono, anche a seguito del matrimonio con la di lui figlia.

Pur a conoscenza della profezia, il padre decise di incontrare Orso e, accolto dalla nuora mentre lo stesso si trovava a caccia, gli venne concesso di riposarsi nelle stanze reali.  Un subalterno di Orso (o forse il demonio stesso) lo istigò raccontandogli che un uomo si era coricato con la moglie. Ritornato precipitosamente a palazzo, Orso uccise il padre, il figlio e la moglie.

Compreso il terribile errore commesso e l’avvenimento della profezia, Orso si recò a Roma da Papa Adriano I per ottenere il perdono. Questi gli disse che per espiare avrebbe dovuto intraprendere un pellegrinaggio che durò diversi anni concludendosi sul monte Summano.

Vestito appunto da pellegrino chiese ad una donna da bere e, non ottenutala dalla stessa, morì. La gente del luogo accorsa trovò il pellegrino esamine con il bastone fiorito. Così riconosciuta la sua santità venne venerato e diede il nome alla cittadina di Santorso.

 

"Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo".

(W.J. Goethe)

 

Elli De Mon parte da qui, dalla storia di Orso, da cui viene il nome della cittadina in cui è nata, per presentarci la sua ultima fatica discografica, Raìse, ovvero radici, e già dalla scelta di questa parola, come potrete leggere nella intervista che segue, si apre un mondo.

Radici, ovvero roots, cioè l’opera di (ri)appropriazione della tradizione, della storia, in cui si nasce e nei cui confronti, volenti o nolenti, ci viene chiesto di fare i conti.

Elli De Mon, ovvero Elisa De Munari, decide di farli questi conti, sia personalmente sia musicalmente, e ciò che scopre e ci presenta è qualcosa che travalica il genere musicale rispetto al quale viene comodo confinarla: il blues.

Raìse non è un disco blues, è un disco dove sicuramente c’è traccia di blues, ma c’è tant’altro: rock, folk, un tocco gotico, melodie e cori vocali tradizionali, strumentazione ricca e variegata: chitarre of course, percussioni, sitar, archi, harmonium etc.

Tutti elementi che, per la prima volta, conducono altresì Elli ad abbandonare la proposta musicale per cui è conosciuta, ovvero quella di one woman band, per suonare insieme ad altri due bravi musicisti, Marco Degli Esposti e Francesco Sicchieri, considerato che, ad esempio, la bella "Suman" sarebbe, penso, irrealizzabile dal vivo, come quasi tutti gli altri brani del disco, in versione solo (ascoltate per trovare ulteriore conferma la successiva "El me moro", con un testo purtroppo sempre attuale in tema di violenze domestiche, con il suo crescendo di riff stoner).

Basterebbe questo (anche tenendo conto di quanto potrete leggere nell’intervista che segue) per capire che Raìse non è semplicemente il nuovo disco di Elli De Mon ma qualcosa di più, come di più è stata la scelta di concepire, scrivere e cantare nella lingua “madre”, ovvero il dialetto.

 

"Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà: il giornalista che parla in italiano allude genericamente a una realtà sempre insicura".

(Pier Paolo Pasolini, Dialetto e poesia popolare, Mondo operaio, 1951)

 

Riprendendo l’incipit iniziale, si diceva come ognuno ad un certo punto della propria esistenza fosse costretto dalla realtà a fare i conti con la propria cultura, la tradizione in cui non ci è stato chiesto di nascere ma di fronte alla quale ci si vede costretti a domandarsi il perché ci si trova qui e ora.

Elli/Elisa compie la seconda operazione sia culturare sia di (ri)appropriazione: come affermato dalla stessa, la musicista veneta si rende immediatamente conto che questa storia non poteva essere cantata in inglese (lingua di elezione musicale utilizzata sino ad ora).

Ecco allora che cade un ulteriore schermo, cantare nella propria lingua (vivente) il dialetto, da un certo punto di vista, certifica il luogo di appartenenza geografica e culturale (con i suoi peculiari lemmi, le personali cadenze che cambiano molto spesso nelle singole province delle nostre regioni) e ci consegna nudi all’ascoltatore, senza alcuna barriera linguistica.

Incredibilmente tuttavia il dialetto, come indicato nella frase di Pasolini posta nell’incipit del presente capitolo, diventa lingua di elezione, con le sue frasi spezzettate, idioma malleabile sia nel brano di sapore quasi hard rock quale è "Foresto", eppure, al contempo, così melodicamente utilizzabile nella successiva e delicata ballata "Oseleto".

 

"Il perdono accorda fiducia al tempo (proprio ed altrui) e così facendo lo libera e lo rigenera. In qualche modo rinnova il tempo".

(Stefano Biancu, Pensare il perdono)

 

La storia di Orso ci inchioda infine anche a una esperienza che tutti noi facciamo ma di cui più che volentieri non parliamo: le colpe commesse e subite ci agghiacciano, bloccano il tempo, generano il rimpianto; il dolore causato e/o subito ci logora, e quindi? Come rispondere a tale domanda? Da chi ci verrà il perdono? Parola ostica, di sapore religioso, ma che gli ultimi studi psicoanalitici devono necessariamente immettere nel percorso terapeutico.

Orso lo trova nella cultura in cui è immerso. È il Re, per tale motivo non può essere condannato dal Tribunale e quindi, nel medievale utrumque ius, rimane una sola altra autorità alla quale chiedere che sia fatta giustizia: l’autorità del Pontefice allora in carica, Adriano I.

Orso si rimette alla decisione che gli viene indicata per espiare la propria colpa: la pratica devozionale di un lungo peregrinare che alla fine la condurrà a morire in pace con se stesso, come dimostrato dal miracolo del suo bastone di pellegrino che fiorisce. Stessa simbologia che potrete trovare nei bellissimi arazzi di stile fiammingo dedicati alla vita di Maria nella Collegiata di Notre Dame nella cittadina medievale di Beaune in Borgogna, dove la scelta tra i pretendenti della giovane è decisa dal simbolo del bastone fiorito in mano a Giuseppe.

Nel disco troviamo delle risposte personali che Elli ci offre in chiave musicale, penso ad esempio alla tenera ma al contempo ruvida "Giose", seguita da "Sarò Tera" (una sorta di nenia raga-blues), e anche nel successivo brano "NANA Bobò: crossover" tra un canto tradizionale veneto e una ninna nanna indiana.

 

Lascio ora la parola alla diretta interessata, ringraziando Elli per la sua disponibilità, che mi ha permesso, sulla scorta anche di quanto sopra descritto, di “toccare” degli argomenti “oltre” il disco per giungere al cuore della sostanza di fare musica e non solo, perché sono sempre più convinto come non sia possibile “inscatolare” l’essere umano che non è solo quello che fa, ma è soprattutto quello che è in quello che fa.

 

***

 

Ciao Elli benvenuta a Loudd. Per “rompere il ghiaccio”, partendo subito a spron battuto, mi piacerebbe che potessi illustrare ai nostri lettori una notazione che hai fatto sul concetto della musica Blues che mi ha molto colpito per la sua originalità rispetto al cosiddetto common sense (anche di molta letteratura musicale che tende a cristallizzarti in tale genere) in merito a tale tipo di musica?

Credo che il blues navighi da troppo tempo negli stereotipi. Purtroppo, la commercializzazione l'ha spesso ridotto a caricature, come quella del "bluesman sofferente, povero, meglio se incarcerato che canta delle sue sfighe" o della "cantante arrabbiata”. Questa semplificazione ha contribuito a "addomesticare" il blues per renderlo più digeribile al pubblico bianco, privandolo del suo potenziale di critica sociale e mobilitazione politica. Gli stereotipi permettono di consumare superficialmente elementi della cultura afroamericana evitando un vero confronto con questioni di giustizia razziale e disuguaglianza. E noi continuiamo a chiedere a quei corpi di performare esattamente quello che noi ci aspettiamo di vedere sopra un palco, tanto è vero che se vai ad un festival blues nostrano senti suonare sempre le solite cose. Per me oggi è più blues l’artista berbero che canta rappando nella sua lingua madre della sua quotidianità, piuttosto che il chitarrista che mi fa la progressione blues e la scala pentatonica.

 

Passiamo a Raìse un disco che veramente mi ha stupito. Innanzitutto, per la storia in sé, un crowdfunding per un disco che parla di Orso, personaggio da cui prende il nome anche il tuo paese di origine. Nel riprendere la recensione, da un certo punto di vista, non mi ha sorpreso che Elli de Mon, torni ad essere Elisa De Munari; ovvero, da un lato, ritorni alla propria terra, alla riscoperta delle proprie radici (Goethe dixit come sopra indicato), dall’altro lato (ma collegato) abbandoni la lingua inglese (usualmente abituata nel comporre e cantare) per cantare in dialetto. Qual è stata la ragione di ciò?  Questa storia doveva “per forza” essere cantata in vicentino? Cantare nella lingua madre, penso a quanto sopra indicato in recensione di quello che parlava Pasolini sull’uso del dialetto, che sensazioni ti ha donato? E dal punto di vista della metrica, del cantare, come ti sei trovata?

La scelta del vicentino non è stata casuale ma profondamente necessaria. Essendo la storia di Orso, un mito che parla a livello universale, mi ha toccato profondamente, anzi mi ha scosso, di conseguenza doveva essere narrata nella lingua delle radici, nella lingua madre. Il dialetto non è solo un mezzo espressivo, ma un ponte verso l'autenticità dell'esperienza. Cantare in vicentino ha generato una duplice sensazione: da un lato il radicamento profondo nella terra, nella materialità del vissuto quotidiano che solo il dialetto sa esprimere; dall'altro l'elevazione verso una dimensione universale, poiché paradossalmente è proprio attraverso la specificità della lingua locale che si raggiunge una certa profondità. Pasolini lo aveva ben compreso: il dialetto conserva una forza espressiva primordiale che il linguaggio standardizzato ha perso. Dal punto di vista metrico e interpretativo, questa scelta ha comportato una sfida significativa ma illuminante. La musicalità intrinseca del vicentino, con i suoi ritmi e le sue cadenze peculiari, ha richiesto un adattamento profondo ma ha anche aperto nuove possibilità espressive. È stato come intraprendere una discesa agli inferi che però ha condotto a una nuova consapevolezza artistica e personale. Il dialetto si è rivelato non un limite ma uno strumento di liberazione.

 

La storia di Orso parla a tutti noi: chi nella propria vita non deve fare i conti col suo passato, con dei dolori, con la ricerca del perdono. A tale proposito mi vengono in mente le bellissime pagine del filosofo Stefano Biancu: “Il soggetto umano che domanda, riceve ed accorda il perdono è un essere essenzialmente fatto di responsabilità e di colpa (e dunque di debiti e di crediti), di tempo, di legami, di interessi vitali. Un essere che sa che bene e male non stanno soltanto davanti a lui (all’esterno) ma sono - in qualche modo - anche in lui (all’interno). Un essere che è dunque consapevole di trovarsi in situazioni di debito: debito di sé, ma anche in debito con sé e con l'altro da sé. Un essere che ha dunque strutturalmente bisogno del perdono: ha bisogno di darlo e di riceverlo”. Per Elli/Elisa cosa ha significa la vicenda di Sant’Orso e cosa ha significato questo disco?

Il significato di questo disco va ben oltre la mera dimensione artistica. Come suggerisce Biancu nelle sue riflessioni sul perdono, siamo esseri intessuti di responsabilità, colpe e debiti, non solo verso gli altri, ma anche e soprattutto verso noi stessi. La storia di Sant'Orso ha rappresentato un catalizzatore per affrontare questi temi profondi. La genesi del disco è stata quasi catartica: dieci giorni di scrittura intensa, come un'urgenza espressiva che doveva trovare la sua voce. Ma il vero lavoro è iniziato dopo, nel processo di metabolizzazione, che è ancora in corso. È come se il disco avesse aperto delle porte che non potevano più essere richiuse, costringendomi a confrontarmi con antichi dolori che richiedevano (e richiedono tuttora) un delicato lavoro di elaborazione. Questo progetto ha toccato delle corde profonde dell'animo, quelle che Biancu descrive come luoghi dove bene e male non sono solo esterni ma abitano dentro di noi. Sono tematiche che richiedono tempo, rispetto e la giusta cura per essere elaborate. Proprio per questa sua capacità di farsi specchio di un percorso interiore così significativo, questo disco rimarrà un punto di riferimento fondamentale nel mio percorso, indipendentemente dal riscontro esterno. Ha rappresentato un viaggio nell'essenza stessa di ciò che significa essere umani: la capacità di affrontare il proprio passato, di cercare e concedere il perdono, di riconoscere la propria vulnerabilità come fonte di forza.

 

Per questo disco ti sei affiancata con altri musicisti, anche da questo punto di vista Raìse si differenzia dalle tue precedenti produzioni, questa scelta è stata necessitata dalla strumentazione necessaria per la registrazione, oppure, è fondata anche su altre ragioni?

La scelta di collaborare con altri musicisti per Raìse nasce da una duplice esigenza. Da un lato, la complessità e la ricchezza sonora del disco richiedevano naturalmente un organico più ampio rispetto alla dimensione one-woman band dei lavori precedenti. La molteplicità di strumenti e sfaccettature sonore del progetto necessita di un approccio diverso, più articolato. Ma c'è anche una ragione più profonda: ho sentito l'esigenza di uscire dalla mia zona di comfort, di aprirmi a nuove possibilità espressive attraverso il dialogo musicale con altri musicisti.

 

Raìse è anche il titolo di un libro omonimo, ce ne vuoi parlare?

Raìse è un piccolo libro illustrato che reinterpreta la leggenda di Sant’Orso attraverso un monologo introspettivo del protagonista. È strutturata in dodici canti, ed esplora temi universali e archetipici, attraverso le illustrazioni di Luca Peverelli e le mie parole, che vanno ad ampliare e spiegare quelle dei testi del disco. Il racconto segue il viaggio fisico e spirituale di Orso, un uomo tormentato dal suo passato e dalla ricerca di redenzione. Attraverso il suo monologo, emergono riflessioni profonde su colpa e perdono, identità e trasformazione, alienazione e appartenenza. Vengono intrecciati elementi della tradizione folkloristica locale con archetipi universali, creando un ponte tra il mito e l’esperienza umana contemporanea. Il viaggio di Orso verso il monte Summano diventa una metafora del percorso interiore dell’individuo verso la riconciliazione e l’accoglienza di sé.

 

L’ultima domanda riguarda i prossimi live. Porterai in giro il disco da sola o saranno presenti anche Marco e Francesco come nella registrazione dell’album?

Saremo in trio, altra dimensione nuova e non proprio semplice per me e soprattutto per chi mi segue. Noto che c’è diffidenza, sia nei confronti del dialetto che del trio. Ma vi smentiremo! (risate, ndt.)