Il terzo disco di Bonetti racconta entrambe queste verità. Il cantautore piemontese ha sempre avuto l'appartenenza alla propria terra come cifra stilistica ben riconoscibile sin da quando, nel brano che apriva il suo esordio “Camper”, datato 2015, raccontava un sogno strampalato dove un eccentrico e improbabile politico della zona veniva definito “un Tom Petty delle risaie”. Niente di meglio, adesso, che intitolare un album “Qui” per dare ancora maggiore concretezza a questa visione. E allo stesso tempo, questa semplice locuzione spaziale costituisce un giudizio sui tempi che stiamo vivendo e prova, contemporaneamente, a disegnare una sorta di mappa ideale per riprendere il cammino.
Sarebbe dovuto uscire in tarda primavera, ma la pandemia ha ovviamente scombinato i piani e anche oggi, che lo abbiamo a disposizione sui nostri dispositivi elettronici (ne uscirà anche un'edizione limitata in vinile, purtroppo invece noi collezionisti di cd rimarremo a bocca asciutta) permane un fastidioso ed inquietante senso di incertezza, che deriva dal non sapere esattamente come queste tracce verranno accolte e neppure se ci sarà mai la possibilità di ascoltarle dal vivo.
È senza dubbio un peccato, perché queste contingenze vanno ad incrociarsi con un disco che non solo rappresenta il punto più alto da lui raggiunto, ma che è anche quanto di meglio il panorama cantautorale abbia da offrire oggi al nostro paese. Allo stesso tempo però, non dovremmo preoccuparci troppo perché la risposta a tutte le nostre incertezze sta proprio nel titolo: bisognare esserci, stare, nel posto in cui si è stati messi, bello o brutto che sia, l’autenticità della vita e anche la sua verità passano da questa risposta pronta alle circostanze, per quanto brutte possano sembrare. Era quello che mostrava già Solzenycin nel suo “Una giornata di Ivan Denisovic”, con quei detenuti in un gulag sovietico che costruivano un muro mettendoci impegno e persino un po’ di entusiasmo.
“Qui” è appunto il miglior disco di Bonetti, almeno fino ad ora. Quello che si avverte di nuovo, sin dal primo ascolto, è il naturale equilibrio tra musica e parole, una coesione tematica e strutturale non certo comune all'interno di una proposta che parla il linguaggio della canzone d'autore. La lunga introduzione strumentale di “Camionisti”, traccia di apertura, con batteria e Synth che sembrano srotolarci davanti i paesaggi desolati delle autostrade percorsi da quegli autisti pigri che sono la metafora principale della canzone, costituisce l'ideale biglietto da visita per inquadrare al meglio il vestito nuovo indossato dai pezzi. Dietro la sapiente regia di Fabio Grande, riconfermato in sede di produzione e affiancato da Pietro Paroletti, che ha contribuito suonando diversi strumenti, Maurizio ha inserito i brani all’interno di un'architettura coerente, dove le parti strumentali fanno da collante tra un pezzo e l'altro, al contempo chiarendone le intenzioni e ridefinendone il senso. Ne risulta un insieme straordinariamente coeso, che ha un inizio, uno svolgimento e una conclusione e che pur nella brevità ha il carisma e la magnificenza dei grandi dischi degli anni ‘70, compresi i continui rimandi tematici tra un pezzo e l’altro. C'è un suono stratificato e a tratti imponente, frutto delle numerose sovraincisioni e dei tanti strumenti coinvolti. Chitarre e Synth che dialogano in continuazione, con la punteggiatura elegante dei fiati, impreziosendo una scrittura che non è mai stata così lucida e consapevole.
Basterebbe sentire “Non ci conosciamo più”, uscita già in primavera come primo singolo, col sax in apertura, il basso che tiene su la ritmica della strofa prima che esploda il ritornello, con un'apertura melodica straordinaria. Una canzone che uno come Lucio Dalla avrebbe potuto scrivere ed esserne fiero e che mostra il suo livello di eccellenza anche nel testo, nel suo evocare il rapporto tra passato e presente, la consapevolezza del tempo che passa e delle tracce che ci lascia dentro, il tutto attraverso una carrellata di immagini dall’incanto inusitato.
“Il tempo è una lametta che passa sopra i giorni e ogni giorno passa in fretta” dice poi in “Ceretta”, delicato bozzetto sul miracolo del quotidiano, con il sole che arriverà finalmente a spazzare via la pioggia e si potrà uscire di nuovo, profezia involontaria su questi giorni bui.
O ancora “Siamo vivi”, che questa liberazione la guarda in faccia e la urla senza remore, con una linea di Synth che pare evocare una tromba da stadio. Più scarna e acustica “Carnevale”, almeno nella sua prima fase, con percussioni dal timbro secco sotto la chitarra, prima che il tutto esploda nella seconda parte, con l'entrata di tastiere e batteria, ad evocare un feeling più meditativo che festaiolo.
Ed è emblematico che l'ideale fine del viaggio, forse dello stesso protagonista che vedeva sfilare i camion all'inizio del percorso, si concluda in una placida contemplazione delle risaie: il quotidiano che ritorna, la curiosa fantasia di interrogarsi su come sarebbe vivere tutta la vita in un posto nuovo, pur se anonimo e insignificante, la domanda strisciante su quale sarà, in fin dei conti, il futuro che ci aspetta.
Dura solo 28 minuti ma c’è dentro tutto un universo. A questo giro la voce di Bonetti si staglia più autorevole che mai e, smorzando pur senza eliminare del tutto la sua proverbiale autoironia, sembra dirci che la vita è una cosa seria e che la realtà rimane lo stesso bellissima e piena di possibilità, nonostante a volte possa picchiare duro.
Siamo in uno di questi frangenti, in effetti. Trovarsi ad aver realizzato il lavoro più bello della propria carriera e non avere nessuna certezza su quando e come portarlo in giro, non dev'essere semplice da accettare. Il tempo dirà la sua perché mi spiace, ma a dispetto di tutti quelli che provano un piacere subdolo a pronunciarsi sul tema, al momento è impossibile prevedere come andrà a finire. Facciamo l’unica cosa in nostro potere: ascoltiamo “Qui” e proviamo a riconoscerne l'indubbia grandezza. Dopo cinque anni il talento del suo autore non è più un'opinione.