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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
05/06/2019
Primavera Sound 2019
Qualche considerazione sparsa
Quello che segue non vuole essere un report del Primavera Sound appena trascorso. Sarebbe impossibile, oltre che troppo dispendioso. È un festival dove suonano 200 band e sei fortunato se riesci a vederne 25-30: a chi interesserebbe leggere del mio personale resoconto? Piuttosto, reduce dalla mia quinta partecipazione consecutiva (che non è tanto ma sufficiente ad essersi fatto un’idea di base), ci tenevo a mettere giù qualche considerazione sparsa, anche su aspetti sui quali si è parlato molto nei giorni scorsi.

Partiamo dal fatto che ormai questo non è più un evento di nicchia e non lo è più da diverso tempo. Il Primavera Sound è diventato la versione europea del Coachella: un posto dove accadono cose che non ti devi perdere. Un posto dove devi esserci, non importa se hai capito o meno di che cosa si tratta. Fa figo andarci? Ormai secondo me neanche più tanto: ci devi andare, ci si aspetta che tu lo faccia e tanto basta.

Per noi europei la faccenda è piuttosto facile: tra voli low cost e airbnb, il giocattolo non risulta neppure troppo costoso e, a patto che ci si organizzi per tempo, si riesce a partecipare senza dover sostenere chissà quale spesa.

Attenzione però perché c’è il lato negativo: questo è un festival di musica, la musica è l’ingrediente principale ma, come in tutti i festival che riescono ad imporre il proprio brand prima ancora dell’offerta specifica (c’è tanta gente che compra il biglietto a scatola chiusa, ormai), la maggioranza del pubblico non è davvero interessata a quel che avviene sotto i palchi (che sono almeno dieci, tra quelli principali e i secondari di vario tipo). Andare al Primavera è un must, un obbligo sociale. Andare ai concerti che ci sono al Primavera molto meno. Questo non significa che bisogna girare senza meta per tutta la giornata oppure svaccarsi a caso in qualche zona di passaggio a bere birra. La musica c’è, è onnipresente, la senti anche senza volerlo, per cui sotto qualche palco ci si può anche andare: si consulta il programma, si guarda chi c’è a quell’ora e dove, si individua qualche nome di cui magari si è sentito parlare, di cui si è ascoltato qualche pezzo alla radio, di cui si ha un vago ed indistinto ricordo e si va. Rigorosamente in compagnia, rigorosamente col bicchiere in mano, rigorosamente chiassosi. Si arriva, ci si ferma ad ascoltare per qualche secondo, si chiacchiera del più e del meno tenendo la musica in sottofondo, alzando la voce quando i volumi non permettono di udirsi, poi, dopo dieci minuti o mezz’ora a seconda dei casi, si va via. Verso un altro palco, un altro svacco, un’altra bevuta.

La stragrande maggioranza di chi ci va, il Primavera lo vive così. E questo non sarebbe un problema, se non fosse per quella minoranza che invece vi si reca esclusivamente per la musica (ok, anche perché la location è figa e non devi dormire in tenda). La minoranza silenziosa (tra cui c’è anche il sottoscritto) pianifica con diverse settimane di anticipo i concerti che intende guardare, segue i set dall’inizio alla fine, sta in silenzio ad ascoltare oppure canta, salta, balla ma sempre in relazione a quel che sta avvenendo sul palco e se va via prima, lo fa solo per cause di forza maggiore (tipo: “sta iniziando un altro live che mi interessa di più, mi spiace per questi ma devo andare, ciao”).

Inutile dire che le due tipologie umane confliggono irrimediabilmente e che, in una sorta di aggiornata versione di darwinismo sociale, gli spagnoli e gli inglesi caciaroni saranno destinati a prevalere in maniera schiacciante sui nerd noiosi che vanno ai concerti per quello a cui i concerti dovrebbero servire.

Il Primavera Sound è questo. Da quando ci vado è sempre stato questo ma immagino fosse così anche prima, con la possibile eccezione dei primissimi anni, quando era effettivamente un festival per nerd, non c’era hype e il pubblico casuale non poteva trovarvi nulla di interessante.

È un problema, questo? Non del tutto. Una volta che ci si fa l’abitudine, si riesce a godere delle esibizioni senza dover troppo smadonnare. E poi è bellissimo farsi sorprendere da quei momenti in cui la bellezza di quel che accade sul palco vince su tutto: è accaduto per esempio con Aldous Harding, che ha fatto una performance quasi sussurrata, di incredibile intensità, senza che volasse una mosca; oppure i Low, talmente potenti e comunicativi che il silenzio lo hanno imposto senza fatica, come un dato oggettivo. Ma anche Rosalia, che si è esibita in uno dei due palchi principali, zona caotica, dispersiva ed infernale, soprattutto dalle 22 in poi (i sempre più numerosi membri del gruppo Facebook “Primavera Sound Italia” hanno soprannominato “Mordor” quest’area, giusto per chiarire il concetto), ha coinvolto più o meno tutti, tanto che il singalong collettivo ha per una volta sostituito il cazzeggio.

L’altra questione invece riguarda il sottotitolo di questa edizione: “The New Normal”. Non è stato spiegato alla lettera ma il concetto era più o meno questo: la nuova normalità della rassegna catalana è una line up dove uomini e donne hanno lo stesso peso, in barba ad ogni possibile tentativo di discriminazione. Ecco dunque la scelta, che io ne sappia senza precedenti, di comporre un cartellone al 50% maschile e al 50% femminile, accompagnato da una maggiore sensibilità e da una narrativa più marcata verso le discriminazioni di genere. Il tema è senza dubbio delicato, contiene una buona dose di componente politica e si presta ad una pericolosissima deriva ideologica, ragion per cui nutro a riguardo una serie di perplessità che però, non essendo questo il tema e non essendo il mio campo, preferisco non esternare.

Rimane comunque il fatto che questa auto imposta simmetria, abbia portato alla partecipazione di tantissimi nomi di grande qualità che, in caso contrario, forse non avremmo visto o per lo meno non tutti. Anche se lo stesso discorso si potrebbe fare al contrario: quanti artisti che avremmo potuto vedere sono stati scartati perché sovrannumerari rispetto alle quote prefissate? Non lo sapremo mai ma è inevitabile pensarci.

Arriviamo così all’ultimo aspetto da prendere in considerazione: il cartellone (o “El cartel”, come dicono loro). Dopo le roboanti e isteriche anticipazioni dello scorso anno, rivelatesi puntualmente esagerate al confronto con la realtà, la line up di quest’anno è stata annunciata in modo canonico e senza troppi clamori. E immediatamente è scattato il tiro al bersaglio, soprattutto da parte degli aficionados delle origini, che lamentano una progressiva “poppizzazione” e “rappizzazione” del festival (un’accusa, a ben vedere, sostenuta con decisione già a partire dalla precedente edizione).

Quanto c’è di vero? Anche qui, la questione non è così semplice. Alcuni dei veterani sostengono che generi diversi dall’Indie Rock e affini siano stati presenti da subito ma è innegabile che qualcosa sia cambiato. A scorrere la lista dei nomi, si coglie una certa predominanza di Pop, RnB, Neo Soul, Hip Pop e affini. Per non parlare poi della parte più propriamente “elettronica”, tutto il mondo dei dj e dei producer che negli ultimi anni è cresciuto a dismisura, fino a prendersi una zona a parte del Parc del Forum, che ha una programmazione tutta sua, sorta di festival nel festival che quasi non incontra il resto del programma (io, per dire, quest’anno non ci sono mai andato). Anche a non conoscere i nomi (perché conoscere tutti è impossibile), basta dedicarsi per un paio d’ore alla playlist ufficiale che viene preparata qualche mese prima, per rendersi conto che una certa virata verso ciò che va oggi per la maggiore, è stato fatto.

E però, allo stesso tempo, è vero anche il contrario. E cioè che alla fine, se non ci si fossilizza troppo su un solo genere, di roba interessante da vedere ce n’è sempre fin troppa. Chiaro, se i vostri punti di riferimento sono cose come lo Shoegaze, il Dream Pop o la New Wave e da qui non vi staccate, allora può darsi che andrete via insoddisfatti (anche se trovatemi un altro posto dove poter ascoltare roba come Swervedriver o Drab Majesty); se però siete di gusti vari e avete poche barriere, allora fidatevi che vi lamenterete in continuazione di non riuscire a stare dietro a tutto. Personalmente va sempre a finire così e quest’anno particolarmente: di tutti quelli che avrei voluto vedere, alla fine non sono riuscito a farne che una metà scarsa. E stiamo parlando di un posto dove nel giro di poche ore si può passare dal Jazz dei The Necks all’Hardcore dei Fucked Up e, volendo, ballare al ritmo di gente come Kali Uchis o J Balvin.

Ed è una varietà che, fidatevi, non crea confusione. Al Primavera c’è posto per tutto e per tutti, anche per quanto riguarda gli orari: sia che tu voglia arrivare all’apertura e andartene poco dopo mezzanotte, sia che non ti presenti prima delle 22, troverai comunque grossi nomi e proposte di valore (avete presente il nostro classico festival ad un solo palco, con le band che si susseguono in ordine d’importanza dove di fatto devi per forza finire con l’headliner e dove praticamente sono tutti lì per lui? Ecco, questo a Barcellona non accade mai).

Semmai una cosa è successa, in particolare quest’anno: i nomi ospitati sui due palchi principali, quelli grandi con folla oceanica che si vedono di solito nelle foto e nei video, quelli dove di solito suonano gli artisti col nome scritto in grande, quest’anno sono stati riservati quasi solo ed esclusivamente ad un certo tipo di proposta. Fatta eccezione per gli Interpol e per i Tame Impala, l’Heineken e il Pull&Bear Stage (il nome di quest’ultimo cambia ogni volta a seconda dello sponsor) hanno sempre visto artisti come Miley Cyrus, Rosalia, J Balvin, Solange e gente così, almeno nelle ore di punta, tra le 22 e le 24.

Le proposte più classicamente orientate al rock, anche cose grosse, sono state invece “relegate” sul Primavera e sul Ray Ban Stage, due palchi di medie dimensioni, situati in zone dalla capienza di qualche migliaio di persone ciascuna. Difficile pensare ad una decisione casuale da parte dell’organizzazione e molto più legittimo ipotizzare una sorta di divisione in “zone d’influenza”: i giovani a ballare e a scatenarsi nel macello, i vecchi ad andare in delirio coi loro beniamini, tutti gruppi di almeno vent’anni fa, in spazi meno capienti e dispersivi.

E anche l’importanza degli artisti coinvolti è cambiata: se solo lo scorso anno ci siamo visti Nick Cave, Bjork, The National e soprattutto Arctic Monkeys (ma nel 2016 si era raggiunto l’apice con Radiohead e LCD Soundsystem), quest’anno le realtà più importanti in questo ambito erano Suede, Interpol, Low, Primal Scream e i ritorni attesissimi di band di culto come Built To Spill e Stereolab. Non credo sia un caso che i Vampire Weekend, tornati con un disco nuovo dopo sei anni di silenzio ed headliner in parecchi festival estivi, in giro per il mondo, qui non siano stati chiamati.

Quindi, per concludere con questo aspetto, la volontà di dare un cambio di direzione c’è e non si può negare. Ma anche qui non si tratta di rincorrere la moda del momento, bensì di rimanere alla pari con quello che sta accadendo. Anche solo da un mero punto di vista economico, i nomi che tirano sono all’interno di certi generi, non di altri. Volerlo ignorare del tutto e limitarsi ostinatamente a metter in piedi line up modellate sulle passate edizioni, darebbe al festival un’impronta nostalgica e, di conseguenza, gli farebbe perdere parecchie presenze. Si è preferito quindi giocare su due livelli: attirare le nuove generazioni ma, allo stesso tempo, non perdere i clienti più fidelizzati. I quali avranno sicuramente meno da spulciare tra i nomi scritti in piccolo, ma difficilmente si ridurranno a vagare per ore senza nulla da fare. A patto, come ho già detto, di non avere troppe preclusioni.

Arrivati a questo punto, veniamo a parlare della qualità dei live, per lo meno di quelli a cui ho avuto modo di assistere. Normalmente il criterio con cui mi trovo a scegliere, al di là dei gusti personali, è quello di privilegiare artisti che o non ho mai avuto modo di vedere dal vivo, oppure non passeranno a breve dall’Italia. Faccio un’eccezione solo in casi di passione malsana (successe per i Radiohead nel 2016, visti parecchie volte ma imperdibili, anche perché non suonavano da quattro anni) oppure in mancanza di alternative valide (vedi quest’anno i Low, già ammirati per due volte a stretto giro ma che suonavano in una fascia oraria senza troppa concorrenza).

Se state però pensando che adesso vi ammorberò con un report dettagliato di tutti i concerti di questi giorni, potete pure stare tranquilli: ho capito da tempo che è una formula che non interessa a nessuno. Semplicemente, ci tengo a sottolineare un qualcosa che ho avuto modo di capire con forza durante le numerose e sfibranti ore passate sotto ai palchi (a proposito, un Primavera Sound fatto come Dio comanda dall’inizio alla fine comporta una prova fisica non indifferente, è meglio tenerlo presente). Avete presente l’eterna dicotomia elettronica/strumenti veri, basi/musica dal vivo, digitale/analogico? Ecco, ho capito che è una diatriba, una contrapposizione che non ha ragione di esistere. Ovviamente rimango della mia idea: sentire suonare una chitarra, un basso e una batteria, capire immediatamente quello che sta accadendo sul palco, è decisamente più immediato ed immediatamente più emozionante. Sono gusti personali, certo, dipende molto dalla mia storia musicale e dalla mia sensibilità, ma temo che difficilmente cambierò idea. Eppure, mai come in questa edizione del festival mi è apparso chiaro che questi sono solo dei mezzi: ovvio, influenzeranno senza dubbio la sostanza di quel che stai andando a proporre ma alla fine quel che conta è quel che proponi e se sei abbastanza bravo da farlo passare con efficacia. In poche parole, importa fino ad un certo punto con che cosa comunichi ma quel che comunichi è fondamentale.

Un live come quello dei The Necks, per dire, fatto di un’unica, lunga improvvisazione Jazz di 50 minuti, nonostante non sia propriamente il mio genere, mi ha lasciato senza fiato, al punto che quando è finito mi è davvero dispiaciuto. Allo stesso tempo però, sabato ho iniziato la mia giornata con Caterina Barbieri e le lunghe ed ipnotiche composizioni elettroniche del suo ultimo “Ecstatic Computation” mi hanno rapito esattamente allo stesso modo.

O ancora, mettendo a confronto due artiste che parlano un linguaggio “tradizionale”, con tante chitarre in primo piano e in molti casi debitore agli anni ’90: Courtney Barnett ha fatto un concerto strepitoso, potente e dinamico, con solo due chitarre, un basso e una batteria a disposizione (qualche linea melodica campionata ma proprio lo stretto indispensabile); Snail Mail, al contrario, il cui “Lush” è stato incensato da tutte le riviste di settore (anche Pitchfork, il che dice tutto) è stata autrice di una performance mediocre, con una Lindsey Jordan supponente come pochi, penalizzata sì da problemi tecnici ma assolutamente incapace di godersela lo stesso.

Per quanto riguarda invece l’altro versante, quello elettronico, ad una Empress Of confusionaria e svociata o ad una Tirzah brava, formalmente impeccabile ma piatta e poco comunicativa (ed entrambe hanno da poco publicato dischi che ho apprezzato), hanno risposto gli show di FKA Twigs e Rosalia, molto diversi tra loro ma con in comune una cosa: sul palco non c’erano strumenti (giusto qualcosina per la prima ma con interventi molto sporadici). Eppure, l’attenta scelta delle coreografie, con la presenza consistente di ballerini sul palco, la cura degli abiti di scena e le pazzesche performance vocali di cui sono state autrici le due ragazze, hanno contribuito a dare vita a concerti che difficilmente dimenticherò. Aggiungiamo Kali Uchis, che ha mescolato un po’ le due anime ma che ha vinto soprattutto per il suo carisma e per il suo modo sicuro di dominare la scena.

Parliamo ora delle vecchie glorie, quelli che “li ho già visti migliaia di volte e mi hanno stufato” e “tanto ormai non hanno più nulla da dire”: il set dei Primal Scream (che però vedevo per la prima volta quindi forse non sono attendibile) è stato una botta clamorosa, scontato e prevedibile forse, ma stare fermi era impossibile, con quel tiro lì e con un Bobby Gillespie che è ancora un animale da palco di razza.

Stessa cosa per gli Suede, di cui ho visto solo le prime sei canzoni: Brett Anderson giù di voce ma generosissimo, con un gruppo che girava a mille. O Neneh Cherry, a spiegare a tutti Trip Hop e Soul, in un concerto dove toni cupi si sono alternati ad esplosioni di colori e percussioni.

Da ultimo, gli Stereolab: quasi tutti i presenti li hanno visti per la prima volta, hanno fatto un set di classici e sono apparsi straordinariamente in forma, nonostante gli anni passati.

Ho parlato troppo ma consentitemi un ultimo aneddoto, per chiudere: in un’edizione fortemente dominata dall’attesa del prossimo anno, visto che sarà quella del ventesimo anniversario, tra bicchieri commemorativi, il concorso/collezione per vincere abbonamenti gratis e l’annuncio che verranno messi in piedi delle “filiali” in altre città (oltre alla solita Porto, un’altra sarà Los Angeles, a settembre, un’altra è ancora da rivelare), il sabato i primi visitatori sono stati accolti da una cartolina che annunciava in pompa magna uno dei gruppi principali della futura line up. Sapete chi sono? I Pavement. Già, proprio la band di Stephen Malkmus (che coi suoi The Jicks si è esibito nella giornata di venerdì), alle prese con una storica reunion dopo più di dieci anni di assenza. Ecco, forse le polemiche di cui sopra non hanno poi tutto questo senso di esistere, no?

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