Arrivato alla sesta edizione, Psychodelice Fest si conferma sempre di più tra gli appuntamenti più interessanti del nostro paese, per la possibilità che offre di vedere in azione band fautrici di sonorità che da queste parti non godono certo di ampia popolarità.
A questo giro il piatto è ancora una volta interessantissimo, col suo mix di certezze consolidate, nomi già rodati ma meno conosciuti, e scommesse assolute.
La formula è sempre quella: due palchi alternati, quello della sala principale dell’Arci Bellezza e quello della Palestra Visconti al piano di sotto; nessuna pausa tra un set e l’altro ma anzi, corsa frenetica per spostarsi, perché appena un gruppo ha finito, il successivo inizia nel giro di qualche minuto.
Purtroppo la serata si apre con la notizia della defezione dei Partinico Rose, a causa di un recente abbandono all’interno della line up. È un peccato perché il gruppo siciliano si è distinto finora con due ottimi dischi di Post Punk/New Wave (l’ultimo dei quali, Undeclinable Ways, è uscito per la prestigiosa Earache) e non avevo ancora avuto modo di vederlo in azione.
Il programma si apre dunque al piano superiore, dove alle 20.15 spaccate salgono sul palco gli Huge Molasses Tank Explodes. 13th Floor Elevators, Black Angels, Hawkwind, paiono essere i punti di riferimento principali del quartetto del cantante e chitarrista Fabrizio De Felice, che pur derivativo nella proposta, ha dalla sua canzoni davvero pregevoli (l’ultimo disco, III, è uscito a settembre). Atmosfere lisergiche date dall’interazione tra le chitarre di De Felice e Giacomo Tota, corredate da pregevoli inserti di Synth, il gruppo dà il meglio e non delude le aspettative.
Unici punti dolenti: la durata scarsa del set (poco più di venti minuti per soli quattro brani) e il fatto che, complice l’orario, il pubblico presente non fosse ancora molto numeroso.
Black Snake Moan attacca subito dopo nel seminterrato della Palestra. Avevo seguito il progetto Marco Contestabile quando era agli esordi (qui la recensione di Phantasmagoria) ma poi l’avevo perso di vista. Nel frattempo sono arrivati tre dischi, l’ultimo dei quali, Lost in Time, a maggio, nonché buoni riscontri di pubblico e critica, anche all’estero. (Qui la nostra intervista a Marco pochi mesi fa).
La formula è la stessa: c’è lui da solo, con chitarra e cassa, una pedaliera infinita e sonorità prettamente Seventies, con un tocco orientaleggiante nei riff. Notevole l’impatto, anche se alla lunga la scrittura evidenzia il limite di un’eccessiva omogeneità.
I Giöbia sono uno di quei gruppi che dalle nostre parti hanno uno status poco più che di nicchia, ma oltre confine sono conosciuti e apprezzati, un destino condiviso con molte altre band che si muovono al di fuori della comfort zone dell’ascoltatore medio.
Dal vivo l’elemento psichedelico passa in secondo piano rispetto a quello più prettamente Hard Rock, qualche contaminazione Stoner. Rimane comunque ben presente l’impronta Sixties, e l’impatto generale è travolgente, con brani per lo più strumentali, illuminati dalle evoluzioni chitarristiche di Stefano Basurto. Nel finale, sugli scudi la sezione ritmica di Pietro D’Ambrosio (batteria) e Paolo Basurto (basso), che, rimasti da soli sul palco, si esibiscono in una lunga e terremotante coda. Procuratevi l’ultimo Acid Disorder e non ve ne pentirete.
Corsa alla Palestra Visconti per prendere la prima fila, visto il palco ad altezza terra e tutto l’hype attorno ai Soapbox. La band di Glasgow, unico act straniero di questa edizione, ha pubblicato per il momento solo l’EP Hawd That e una manciata di singoli, abbastanza per aver attirato l’attenzione di pubblico e addetti ai lavori, con la definizione di “nuovi Idles” che non ha tardato ad essere impiegata.
Le canzoni, diciamocelo chiaramente, sono quelle che sono, anonime e derivative, anche se qualche bel colpo lo hanno assestato (gli ultimi due singoli “Disgrace” e “The Fear” non sono affatto male). Sul palco invece sono magnifici, trascinati da un frontman come Tom Rowan, matto come un cavallo e simpaticissimo, che si rivolge ai presenti in un modesto ma comprensibile italiano e passa quasi più tempo a pogare in mezzo al pubblico che coi suoi compagni di avventura. Gli altri tre (Jenna Nimmo alla batteria, Angus Husband alla chitarra ed Aidan Bowskil al basso, quest’ultimo che sfoggia una maglietta della nazionale di calcio scozzese, giusto per far capire da che parte stanno) sono più compassati ma partecipano a modo loro della follia generale, cimentandosi in una performance rozza e a tratti imprecisa, ma senza dubbio memorabile. “Mad Jungle Beat”, “Private Public Transport”, l’irresistibile “Fascist Bob”, “Stiff Upper Lip” incendiano l’atmosfera, affiancati dagli ultimi singoli e da una manciata di inediti che compariranno sul disco di prossima uscita.
Diciamoci la verità: questo revival del Post Punk è ormai entrato in una fase di stanca da cui non sembra in grado di potersi salvare. I Soapbox, dal canto loro, non paiono altro che gli ennesimi cloni di una proposta sempre più uguale a se stessa. La loro resa terremontante dal vivo, e il carattere politico della loro immagine publica, tuttavia, sono fattori che potrebbero proiettarli molto in alto (come insegna del resto la recente esplosione delle Lambrini Girls). Restiamo in attesa.
Gli scozzesi hanno leggermente sforato sui tempi, per cui quando facciamo il nostro ingresso nella sala principale, stanno già risuonando le prime note di “Meno male”. Da qualche anno i Bachi da Pietra sono diventati un trio, con l’innesto in pianta stabile di Marcello Batelli (Non Voglio che Clara), che dà una mano al basso, ai Synth e all’elettronica.
I due album realizzati dalla nuova formazione, Reset e Accetta e Continua, appaiono leggermente più scarni e meno pesanti di lavori ultra celebrati del recente passato come Quintale e Necroide. Eppure, dal vivo la carica è quella dei vecchi tempi, i suoni sono massicci, l’oscurità palpabile e le sonorità Metal non tardano a fare capolino.
Giovanni Succi è il solito mattatore assoluto, gestualità minimale e carisma da vendere, la voce che passa dal sussurrato alle tonalità più alte, un suono di chitarra avvolgente e magnifico. Accanto a lui, Bruno Dorella è una certezza, drumming chirurgico, con l’utilizzo dei Pad a rendere il tutto più potente e dinamico. Un set incentrato quasi totalmente su Accetta e Continua, coi suoi testi densi di rabbia e disillusione, dall’inusuale connotazione politica. “Nel mio impero”, “Mai fatto 31”, “Un lampo e noi”, “Al Belcanto”, sono esempi fulgidi della continua e non scontata capacità di rinnovarsi da parte di un gruppo che, sulla scena da vent’anni, non avrebbe più nulla da chiedere a se stesso.
Tra gli episodi più vecchi, solo “Insect Reset” e l’anthem “Bestemmio l’universo”, con tanto rammarico per l’assenza di “Black Metal il mio Folk”, forse tagliata per ragioni di tempo.
45 minuti di altissimo livello, da parte di quella che continua ad essere una delle migliori band che abbiamo in Italia, una band che gioca da sempre in un campionato a sé e lo fa sempre meglio col passare degli anni.
Complimenti a Caramello e ad Arci Bellezza per un altro Psychodelice pienamente riuscito. Ci si rivede l’anno prossimo.