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REVIEWSLE RECENSIONI
22/03/2024
La Crus
Proteggimi da ciò che voglio
"Proteggimi da ciò che voglio" è il nuovo disco dei La Crus. Un disco "polietico" (politico ed etico), al tempo stesso sia scuro e pessimistra sia luminoso e contemplativo, che ha ritrovato quell’anima sperimentale che dominava gli esordi. Un grandissimo ritorno in cui è meraviglioso immergersi.

Nel 2019, quando Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti hanno rimesso in scena Mentre le ombre si allungano, lo spettacolo teatrale da loro concepito, che univa brani recitati alle canzoni più celebri dei La Crus, erano stati molto chiari nell’affermare che non si trattava di una reunion dello storico gruppo milanese. In effetti, al di là del numero limitato di rappresentazioni, la performance era stata ben lontana da un concerto, anche se era stato comunque emozionante risentire alcuni di quei brani dopo così tanti anni.

Faccio personalmente fatica a mantenere un tono professionale, parlando dei La Crus, perché il trio meneghino ha rappresentato tanto per me, nella mia storia di ascoltatore. È stato il nome che per la prima volta mi ha aperto le porte di quello che ancora era considerato “Indie italiano”, anche se per me, che prima che metallaro ero stato un vorace consumatore di cantautori, era risultato più interessante scoprire come si potesse unire un cupo vestito elettronico a brani che erano chiari debitori di Luigi Tenco e Piero Ciampi.

Fatto sta che mi innamorai dei La Crus proprio quando, con Dietro la curva del cuore (che era stato in parte prodotto da Manuel Agnelli, un’altra scoperta musicale di quel periodo) stavano compiendo un passo verso la dimensione mainstream, dimensione che prevedibilmente non raggiunsero mai, dato che molto raramente, nel nostro paese, si spalanca davanti agli artisti non intendano annacquare in maniera consistente la loro proposta (e, per quanto più accessibile dei primi due, quel terzo disco era comunque fuori della portata dell’ascoltatore medio).

Comunque sia, divenni un fan accanito e in quegli anni li vidi parecchio dal vivo, consumando i successivi Crocevia (per quanto mi riguarda, il disco di cover più bello di sempre) e Ogni cosa che vedo (lì purtroppo si incominciò ad intravedere un certo calo di ispirazione), per poi mollarli più o meno definitivamente quando uscì Infinite possibilità, quello che è rimasto fino ad oggi il loro ultimo lavoro in studio.

 

La cosa buffa è che non riesco a ricordare perché mi staccai da loro: nel 2005 non ero ancora il consumatore bulimico di musica che sono adesso, lo streaming non esisteva e anche il downloading illegale era ai suoi primordi: se si voleva un disco bisognava ancora giocoforza comprarselo e io, probabilmente, centellinavo i soldi investendoli su qualcosa che all’epoca ritenevo più interessante.

Dopo lo scioglimento, che ha avuto come appendice anche una sporadica partecipazione a Sanremo, in un momento storico in cui non era ancora scontato che quei gruppi lì ci andassero, Giovanardi, Malfatti e Cremonesi si sono dedicati ciascuno ai propri progetti personali e almeno fino al 2019 i La Crus parevano destinati a rimanere una creatura del passato.

Oggi che la moda di riunirsi è divenuta talmente inflazionata da far sospettare che si tratti di un mero effetto collaterale di quel post capitalismo selvaggio che è, guarda caso, uno dei temi di Proteggimi da ciò che voglio, che spazio può avere, nei nostri cuori, nelle nostre menti, il ritorno effettivo dei La Crus?

Uno spazio grande, per quanto mi riguarda. Al di là del posto che potranno ancora occupare nella scena italiana, di quante persone effettivamente ascolteranno questo disco, la notizia è che sono ancora qui, tutti e tre insieme, che hanno scritto nuove canzoni e che le suoneranno dal vivo assieme al resto del repertorio. Che sia o meno una concessione alla nostalgia non è importante, c’è un disco nuovo ed è giusto parlare di quello.

 

Proteggimi da ciò che voglio è, prima cosa davvero sorprendente, un disco che si potrebbe definire “politico”. Loro hanno precisato coniando il termine “polietico”, ad indicare che anche la dimensione etica, in questi otto brani, gioca il suo ruolo. È sorprendente, dicevo, perché raramente hanno toccato questi temi in passato, preferendo concentrarsi sul “privato” (per usare categorie tipicamente anni ’70) con testi il più delle volte enigmatici e introspettivi.

Saranno i tempi che stiamo vivendo, che nella drammaticità dell’accelerazione generale sembrano obbligare ad una riflessione seria, sarà che Alex Cremonesi su certe cose ha riflettuto di recente nel suo spettacolo Il sacro commercio, ispirato in parte alla vicenda storica di San Francesco d’Assisi; fatto sta che, almeno dal punto di vista lirico, si tratta dell’album più esplicito che abbiano mai realizzato. C’è un’accusa ai ritmi frenetici a cui siamo costretti a sottostare, in un universo dominato dal denaro e dalla produttività a tutti i costi, poco o nessuno spazio per l’arte e per la dimensione interiore, la profezia di Pasolini avveratasi proprio nel momento in cui, con la scomparsa delle grandi ideologie del Novecento, avevamo ingenuamente sperato di poter essere più liberi, più noi stessi.

 

Un disco scuro, dunque, pessimista, ma che non rinuncia a sprazzi di luminosità e contemplazione (“La pioggia” e “Discronia” ne sono buoni esempi) e neppure ad un po’ di ironia, come nella decisione di inserire, ne “La rivoluzione”, un breve parlato del filosofo Slavoj Zizek; uno che, al di là della durezza delle analisi, non ha mai rinunciato ad uno sguardo divertito sull’esistenza.

Musicalmente parlando, è come se il tempo non fosse passato. Il trio si è affidato alle sapienti mani di Matteo Cantaluppi, che al di là delle produzioni mainstream degli anni recenti (è quello di “Riccione”, per dire) è soprattutto un grande compositore di elettronica e Ambient, come ha dimostrato anche l’ultimo disco del progetto Carver, realizzato assieme a Marco M. Colombo.

Assieme a lui hanno ritrovato quell’anima sperimentale, di ricerca, che dominava soprattutto nell’esordio del 1995: canzoni come “Io non ho inventato la felicità” e soprattutto “Sono stato anch’io una stella” sembrano, da questo punto di vista, figlie di vecchi classici come “Correre” e “Buco di pietra”. È comunque un lavoro dove si ritrovano tutte le varie anime incarnate dal gruppo nel corso della sua storia: l’opener “La pioggia”, col pianoforte, le orchestrazioni leggere e l’ambiente elettronico di sottofondo, è quanto più La Crus possa esserci, cantautorato malinconico e profondissimo, con un Giovanardi che canta ancora esattamente come cantava venticinque anni fa e non si capisce sinceramente come faccia. La sua voce, senza nulla togliere al lavoro degli altri, è la cosa più bella di questo disco ed è rassicurante, quasi commovente, ascoltarlo su questi brani.

 

“Mangia dormi lavora ripeti” alza il tiro, con una combinazione di chitarra e armonica piena di groove e un ritornello aperto e bellissimo: un insolito piglio rock, per un episodio che è uno di quelli più in linea con il concept dell’album.

“Shitstorm” è un altro brano splendido, con una chitarra classica che ricama la melodia ed una splendida orchestrazione in crescendo. Potrebbe sembrare una canzone d’amore, le atmosfere sono quelle delle loro cose più celebri in questo senso, ma il titolo e il testo fanno capire che si tratta di ben altro: “Il messaggio e il messaggero sono divisi ormai”, canta Mauro Ermanno con amara consapevolezza, una triste presa di coscienza di quello che i Social Network stanno facendo alla nostra capacità di comunicare.

Mi è piaciuta molto anche “Discronia”, probabilmente il pezzo più accessibile, solare nelle atmosfere e dal tiro vagamente Pop, vicino per certi versi alle ultime cose da loro incise.

La “Rivoluzione” invece non mi ha convinto: è ironica, musicalmente coinvolgente, ma la presenza di un Vasco Brondi fin troppo uguale a se stesso, alle prese con le solite linee vocali e con una strofa che è un banale compendio della sua scrittura, la rende fin troppo caricaturale.

A chiudere ci sono poi due tracce bonus, che abbiamo già avuto modo di sentire nelle scorse settimane: si tratta di due versioni riregistrate e parzialmente rivisitate di due classici del repertorio del gruppo: delle due, “Io confesso” in compagnia di Carmen Consoli è senza dubbio quella meglio riuscita, forse perché “Come ogni volta” è un brano talmente perfetto che è impossibile toccarlo e in questo caso la presenza di Colapesce e Dimartino non riesce a costituire un valore aggiunto come sarebbe stato lecito attendersi.

 

Nel complesso si tratta di un gran ritorno, per quanto mi riguarda superiore alle ultime due prove in studio: c’è ora la speranza che i La Crus non se ne vadano e continuino a produrre musica, non importa in quanti saremo ad ascoltarla. Della bellezza che hanno sempre saputo trasmettere c’è ora più bisogno che mai.