Quella che è senza dubbio una delle uscite più importanti dell’anno in chiave di musica “sperimentale” o più semplicemente “strumentale”, arriva in un momento storico in cui il Jazz ha smesso di essere un genere di nicchia, destinato unicamente ad un tipo di consumatori a senso unico, ma è entrato a vari livelli nella scena alternativa, con artisti come Kamasi Washington, Thundercat, Comet is Coming o Sons of Kemet chiamati nei principali Festival e divenuti beniamini di gente che normalmente mastica tutt’altra roba.
Ed anche per Floating Points, collaborare con uno dei grandi nomi del Free Jazz, l’ultimo superstite dell’epoca classica del genere, da Ornette Coleman in avanti, appare una mossa obbligata. Sam Shepherd oggi sarà anche uno dei produttori e compositori elettronici più affermati sulla piazza ma nasce come pianista, una predilezione per musicisti di “avanguardia” come Debussy ma anche per jazzisti come Bill Evans. Poi, quando da Manchester si sposta a Londra per fare il dj, ci terrà sempre a fare scelte lontane da quello che avrebbe potuto essere il gusto medio del pubblico. Pharoah Sanders, per esempio, lo aveva già proposto nel 2015 a Berlino, quando mise sul piatto tutti i 20 minuti di “Harvest Time” senza che, a quanto si racconta, nessuno dei presenti abbandonasse la pista.
Ma stiamo comunque parlando di un artista che, assieme a Kieran Hebden (Four Tet) e Dan Snaith (Caribou) (non a caso si sono conosciuti a Londra e sono tutti e tre ottimi amici) rappresenta probabilmente la forma espressiva più alta di un genere a lungo bistrattato da certi “puristi”, vittima di un’eterna guerra di ignoranza tra “musica suonata” e “musica fatta al computer”. Già, sembra strano scriverlo a nuovo millennio inoltrato, ma per lo meno in Italia questa contrapposizione rimane e, soprattutto nelle generazioni più anziane, sembra impossibile da sradicare.
Chissà, forse potrebbe riuscirci proprio questo disco. Perché se non capita tutti i giorni che uno che ha suonato con John Coltrane collabori con un importante nome di ambito clubbing, è anche vero che sin dai tempi di Stockhausen, e forse anche prima, la musica classica e le avanguardie hanno sempre intrecciato un dialogo proficuo.
“Promises” va considerato come un’unica suite, suddivisa in nove movimenti di lunghezza variabile, per un totale di 46 minuti, che però non è soggetta a mutamenti di forma o a cambi repentini di atmosfera. I movimenti ci sono, insomma, ma il fluire è costante, di fatto non ci si ferma mai. È in pratica un’unica session di registrazione, con Sanders e Shepherd ai Sargent Studios di Los Angeles e la London Symphony Orchestra sovraincisa in un secondo momento agli AIR Studios di Londra.
Il mood generale è in larga parte quello delle prime composizioni di Floating Points, più ricercate e minimaliste, dall’esordio “Elaenia” del 2015 alla sinfonia “Reflections – Mojave Desert” di due anni più tardi. Eppure, per quanto sembri incredibile, c’è pochissima elettronica qui dentro. Sam Shepherd fa ruotare tutto attorno ad una sequenza di note di tastiera/clavicembalo, ripetute incessantemente per quasi l’intero arco del lavoro, a fungere da tema portante e insieme punto di riferimento.
Si ha infatti l’impressione che il ruolo del produttore britannico sia stato più che altro quello di mettere una cornice, di iniziare a prendere possesso del territorio che Sanders si preoccuperà poi di abitare. Il suo contributo rimane sempre in sottofondo, non esce mai (se non forse nel terzo movimento, dove ci sono diverse scale ed un botta e risposta discreto tra Synth e Sax) ma è al contempo imprescindibile nel definire il suono, soprattutto quando si amalgama con l’orchestra.
Il sassofonista è al centro della scena, il suo tocco è magnifico e il modo in cui accarezza lo strumento contribuisce sin da subito a far entrare nel mood del disco. Un mood che è nel complesso rilassato, tonalità sempre dolci, da contemplazione sognante. Anche l’orchestra rimane tutto sommato in punta di piedi, accontentandosi di riempire gli spazi lasciati vuoti da Sanders e di fornire un morbido tappeto ai suoi ricami sonori.
Solo nel sesto movimento, dopo un breve dialogo tra sax e violino, l’ensemble sale in cattedra e ruba la scena allo strumento principale, in quello che è uno dei momenti più emozionanti della suite, preludio alla sezione successiva, dove è di nuovo la componente elettronica a ritagliarsi un certo spazio.
Il tutto sempre all’insegna della misura, mai invadente, una progressione costante che procede per variazioni minimali. Non facilissimo ma senza dubbio più accessibile dell’ultimo lavoro di Floating Points.
Imprescindibile, per continuare a raccontare una storia importante e per far cadere certe barriere.