Per i giovani Geese, cresciuti a Brooklyn, Projector è l’album di debutto. Che sia un esordio si percepisce sin dalle prime canzoni: quel mix di sperimentazione formativa, finezza negli arrangiamenti e negli incastri, che strizzano gli occhi al post rock, miscelati a quel tenore ancora un po’ maldestro, che invece di infastidire non fa che rendere i Geese interessanti.
La formazione vede due chitarre, basso, batteria e cantante. Un sound marcio e profondo in cui il timbro scuro del cantante e autore Cameron Winter si immerge, regalando richiami magari non originalissimi (da Casablancas a Jagger, da Malkmus e Reed) ma di sicuro impatto. La grande personalità nelle sue interpretazioni è certamente uno degli assi nella manica della band, poiché fa sembrare facili e personali anche le canzoni che potrebbero apparire meno ispirate.
Le chitarre si intrecciano ruvide e spinose tra reverberi e delay e si sposano perfettamente col sapore ovattato della batteria, sporca e analogica come si conviene. È una sala prove ripresa in maniera eccellente e creativa: nessun artificio, è tutto suonato - salvo qualche abbassamento di volume che funge da entrata ed uscita di scena improvvisa di una batteria su un finale - dignitosamente prodotto e calibrato dai Geese stessi.
Uno degli elementi che più spiccano in questo universo sonoro è il basso: saturo, gonfio, controllato e melodico, con le medio-basse frequenze che lo fanno quasi cantare. Qualche inserto di tastiere e sintetizzatori, poi, accompagna nella transizione da un mondo di suoni all’altro, come nel finale della bella “Exploding House”.
I punti più alti del disco sono raggiunti in diversi punti, anche se non è mai una vittoria che si assapora per più di qualche istante: l’estrema frammentazione porta l’attenzione di chi ascolta a portare l’attenzione ad ogni passaggio, non permettendogli quasi di godere appieno di quelli più riusciti.
“Low Era”, ad esempio, ha dei momenti sonori ipnotici, fatti di chitarre intrecciate in maniera ossessiva, che valgono da soli l’ascolto del disco. “Fantasies/Survival”, invece, ha un bel sapore tutto alla Strokes, mentre la successiva “First World Warrior” lascia intravedere dolci armonie dei Karate evolute in stratificazioni sonore degne di Pavement, Blur o Brian Eno. Ogni paragone, però, è al servizio più della comprensione e del gioco della nominazione e non inficia in alcun modo la bellezza dell’ascolto.
Una delle migliori canzoni dell’album rimane “Disco”, anche se rimangono indimenticabili pure alcuni momenti della title track “Projector”, quando la voce parte e la chitarra sembra fermarsi ma continua a suonare, bassissima e appena intuibile.
“Bottle” e “Opportunity is Knocking” chiudono il disco e lo fanno mantenendo alto il livello di un album che parla a tutti come farebbero degli alieni colorati dalla gentilezza e dai toni familiari, perché, come dicono gli stessi Geese con semplicità: “Everywhere there’s a man like me”.