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MAKING MOVIESAL CINEMA
Principe Libero
Luca Facchini
2018  (Nexo Digital)
DRAMMATICO
all MAKING MOVIES
20/01/2018
Luca Facchini
Principe Libero
Un cast che ha puntato a “rappresentare” i personaggi, prima ancora che ad interpretarli. Ed è stata la scelta probabilmente migliore perché correre il rischio di inseguire l’agiografia o, cosa forse peggiore, la fedeltà all’originale a tutti i costi, avrebbe probabilmente significato il naufragio del progetto

A dispetto del titolo imbarazzante, non si tratta di un brutto film. L'ha prodotto Rai Fiction e già questo non lasciava ben sperare ma per fortuna i timori della vigilia sono stati fugati. Certo, raccontare Fabrizio De André pareva a prima vista un’impresa impossibile e, devo confessarlo, non ho mai dato la minima credibilità a questo progetto. Eppure, ora che ho appena finito di vederlo, devo dire che non è poi così male, sebbene debba esimermi dall’esprimere una valutazione tecnica che non mi compete.

Innanzitutto i 190 minuti di durata sono passati piuttosto piacevolmente: sarebbe esagerato dire che quasi non te ne accorgi ma è vero che non ci sono particolari momenti di stanca. In fin dei conti, se proprio non avete seri problemi di dipendenza, sarà difficile che vi venga il bisogno di controllare il telefono ogni due secondi.

A Luca Facchini è venuta la sciagurata idea di raccontare gli anni più significativi della vita del cantautore genovese e ha trovato nell’aiuto e nella consulenza di Dori Ghezzi l’appoggio necessario per poter procedere (oltre che l’autorizzazione vera e propria, visto che sappiamo tutti che nel mondo di De André nulla si muove senza che lei lo permetta). Un cast di tutto rispetto, che considerati i livelli del cinema italiano se la cava più che egregiamente: Luca Marinelli è bravo e credibile nei panni del diretto interessato, nonostante una leggera inflessione romana che potrebbe anche apparire ridicola (ma la Ghezzi, a chi l'ha interrogata su questo punto, ha puntualizzato che De André non ha mai parlato con marcato accento genovese per cui a posto così), Elena Radonicich e Valentina Bellé se la cavano bene nel ruolo delle due donne della vita dell’artista, rispettivamente la prima moglie Puny e la stessa Dori. Bravo Davide Iacopini nei panni del fratello Mauro, mentre le vere sorprese sono state Gianluca Gobbi (un Paolo Villaggio davvero notevole) e soprattutto Matteo Martari, nei panni di un Luigi Tenco forse eccessivamente caricaturizzato ma non per questo privo di fascino.

Un cast che ha puntato a “rappresentare” i personaggi, prima ancora che ad interpretarli. Ed è stata la scelta probabilmente migliore perché correre il rischio di inseguire l’agiografia o, cosa forse peggiore, la fedeltà all’originale a tutti i costi, avrebbe probabilmente significato il naufragio del progetto.

Per cui largo spazio alla finzione narrativa, nella consapevolezza che “ogni film è un tradimento”, come affermato nel corso del momento di presentazione e che è fisiologico che qualcosa rimanga fuori dal quadro generale (non ci sono né Gino Paoli né Beppe Grillo, per esempio, che sono stati entrambi suoi grandi amici).

Un film, ha detto Dori Ghezzi, che sarà amato soprattutto da quelli che Fabrizio l'hanno conosciuto davvero, piuttosto che da coloro che ne avevano un’immagine predefinita. È impossibile dire la nostra su una questione del genere, ovviamente; rimane però il fatto che siamo di fronte ad un racconto a tinte tutto sommato neutre, per nulla caricato o melodrammatico. C'è più l’urgenza di far vedere, piuttosto che dare dell’artista una visione in qualche modo parziale.

È inoltre una vicenda umana, famigliare, prima ancora che artistica: non ci sono i dischi, non ci sono le canzoni. O meglio, ci sono ma non riescono o non vogliono prendersi uno spazio così preponderante: la colonna sonora è interamente composta dai suoi pezzi, sia nella versione originale sia nell’interpretazione di Marinelli che, bisogna dirlo, svolge il proprio compito alla grande (ma è già uno che canta e suona di suo, seppure non da professionista). C'è il famoso primo concerto alla Bussola, c'è uno scampolo del tour con la P.F.M, c'è il filmato originale di Mina che canta “La canzone di Marinella”, ci sono i primi, divertenti spettacoli assieme a Villaggio ma queste sono le uniche scene dove il repertorio si prende davvero lo spazio che merita. Per il resto, accenni, abbozzi, citazioni sparse. I dischi sono nominati, fatti oggetto di allusioni (almeno fino a “Creuza de Mä”, dove l’autore è rappresentato mentre sceglie alcuni strumenti in compagnia di Mauro Pagani) ma mai raccontati fino in fondo. È stata una scelta precisa degli sceneggiatori (Giordano Meacci e Francesca Serafini) di lasciare tutto questo sotto traccia, preferendo piuttosto mostrare come le creazioni di De André andassero poi ad influenzare la sua vita e a riflettersi sulla società che le recepiva (è l’esempio di un dialogo tra lui e la Ghezzi, quando racconta di essersi imbattuto in manifestanti ad un corteo che cantavano “Canzone del maggio” e questo è all’origine di uno scambio di battute che ha al centro il messaggio che sta alla base delle canzoni e i diversi usi che se ne possono fare).

La conseguenza di tutto ciò è che il racconto del De André uomo si porta via molto più spazio: dalla difficile adolescenza, segnata dalle notti brave tra bottiglie e prostitute, ai contrasti col padre in merito alla strada da seguire, fino alle ben note vicende sentimentali: l’incontro e il matrimonio con Puny (Enrica Rignon), la nascita di Cristiano (che tra parentesi pare non abbia gradito molto questo progetto), Dori Ghezzi, la tenuta in Sardegna, la seconda figlia Luvi, il sequestro dell’estate ‘79 (che si prende molto spazio, incastrato com’è tra l’inizio e la fine del film ma che pare un po' un corpo estraneo senza troppo rapporto col resto della sceneggiatura). Il filo conduttore è poi quello del titolo: la ricerca incessante della libertà, intesa come la propria dimensione autentica, quella che permette di seguire la propria strada e di esprimersi senza condizionamenti di sorta. Più che anarchico in senso politico, come spesso è stato definito, il ritratto che qui emerge, seppure solo accennato e mai approfondito a dovere, è quello di un uomo che ha sempre seguito i propri progetti con tenacia, rifiutando il ruolo e l’immagine che l’estrazione alto borghese della sua famiglia lo avrebbero forse potuto portare ad accettare.

Non c'è la sua morte, in questo film. C'è la scomparsa del padre e la promessa a lui fatta di smettere di bere, con tanto di bottiglie svuotate nel lavandino; dopodiché, tutti i membri del cast, Marinetti/De André compreso, si riuniscono in un cinema e assistono idealmente all’esecuzione di “Bocca di rosa” tratta dal tour di “Anime salve”, che è anche la scena su cui partono i titoli di coda.

Non mi ha convinto molto, questa scelta di sceneggiatura ma capisco che non dev’essere stato facile farsi venire in mente una conclusione che non rischiasse di essere troppo banale.

Immagino che, come spesso accade in questi casi, vivremo una polarizzazione radicale: da una parte gli entusiasti, dall’altra i critici impietosi. Per quanto mi riguarda, preferisco rimanere nel mezzo: mi sono divertito a guardarlo ma, analizzato a mente fredda, questo “Fabrizio De André. Principe libero” centra solo in parte l’obiettivo. Forse ce la potremmo cavare dicendo che non si dovrebbero mai fare film con soggetti così ingombranti. E che il modo migliore per raccontare chi era De André è mettere su qualcuno dei suoi dischi. Non lo so, rischia di diventare un discorso senza uscita. Alla fine è di un film che stiamo parlando: giudichiamolo come tale e finiamola qui.