Che cosa hanno rappresentato veramente I Cani, nello sviluppo storico della scena musicale italiana? Il momento più fulgido dell’Indie oppure, secondo una contro narrazione altrettanto plausibile, il punto esatto in cui l’It Pop ha cominciato a diventare il nuovo mainstream?
Io credo si tratti di tutti e due; basti a tale argomentazione il fatto che fu Niccolò Contessa l’artefice principale del successo di Calcutta.
Vero altrettanto però che, ad ascoltare bene sia Il sorprendente album d’esordio de I Cani sia Glamour sia, addirittura, la svolta Pop di Aurora da più parti criticata, emerge come la voce di quei dischi fosse decisamente più matura della media, nonché ben difficilmente omologabile all’interno di un vasto insieme di artisti sempre più uguali a se stessi.
La notizia, comunque, è che I Cani sono tornati, costringendoci ad aggiungere un capitolo nuovo a una storia che credevamo da tempo finita, e che gli sporadici singoli di questi ultimi anni (il mediocre “Nascosta in piena vista” del 2018 e la straordinaria collaborazione coi Baustelle dello scorso febbraio) non hanno dato motivo di ravvivare.
È stato un ritorno a sorpresa, a quasi un decennio da Aurora, e non è stato minimamente annunciato, col disco che ci è comparso su Spotify così, da un giorno all’altro: scelta di marketing ormai del tutto abusata (nell’era dell’esposizione continua, del postare sempre e comunque, si diceva che l’unico modo autentico di apparire fosse scomparire oppure apparire all’improvviso senza annunciarlo ai quattro venti; entrambe le tattiche risultano sorpassate, vedremo che cosa sapranno inventarsi gli artisti di domani) ma probabilmente necessaria ai fini di evitare un chiacchiericcio che avrebbe inevitabilmente distolto l’attenzione dalla musica suonata.
Post Mortem è un titolo che vuole sicuramente far riferimento a questo, al fatto che li credevamo finiti e invece sono rinati; oppure, più propriamente, ci vuole suggerire che sono morti effettivamente nel 2016 e che quella che inizia adesso (ma si tratterà poi davvero di un inizio?) va inquadrata giocoforza come un’altra cosa, come un’esistenza che non è più davvero presente di fronte a noi ma si muove in una dimensione che non ci è dato di penetrare.
Sia come sia, Niccolò Contessa, di fatto unico autore e produttore di questo disco, con un po’ di aiuto da parte del solito Andrea Suriani (vedremo se, in un’ipotetico tour, verrà rimessa in piedi la line up degli esordi), ha dimostrato di non essere mai rimasto davvero impantanato nei meandri dello spazio-tempo: il nuovo album de I Cani non assomiglia a nessuno dei tre lavori precedenti e riparte esattamente da dove sarebbe più ragionevole ipotizzarne la ripartenza, vale a dire da quello che potrebbe essere successo a un autore che per nove anni non ha voluto far sentire la sua voce in maniera esplicita.
Proviamo a chiedercelo: che voce potrebbe avere Niccolò Contessa dopo nove anni di silenzio? Quali potrebbero essere i suoi punti di riferimento sonori? Come potrebbe riuscire a rendere appetibile un suono che, per quanto iconico, apparirebbe fortemente datato se venisse riprodotto ora?
Se consideriamo che l’artista di Spoleto in questi anni ha lavorato tantissimo come autore e produttore e che, tra gli altri, ha lanciato Tutti Fenomeni (per chi scrive, quello che sarebbero oggi I Cani se non avessero mai smesso e se Aurora non ci fosse mai stato) forse non c’è da scandalizzarsi troppo se il primo nome che viene in mente all’ascolto delle nuove tracce sia proprio quello di Giorgio Guarascio.
Ironico ma allo stesso tempo disilluso nel tono, sorprendentemente cupo nelle soluzioni di arrangiamento, Post Mortem si muove su un ampio spettro di soluzioni, privilegiando come sempre l’elettronica ma facendo uso anche di chitarre e costruendo alcuni brani attorno ad una forma canzone del tutto convenzionale (“Colpo di tosse” è quasi Brit Pop, a guardarla bene).
Il tutto elaborato all’interno di un linguaggio diretto ma per nulla immediato, lontanissimo non solo dal Pop rassicurante e a tratti melenso di Aurora, ma anche dall’elettronica bruciante e irriverente dei primi due dischi, come se dare al pubblico qualche hook indovinato a cui aggrapparsi fosse un lusso che, nel 2025, non ci si potesse più concedere.
E così ecco l’inizio spiazzante di “Io”, piano e voce in odore da marcia funebre, invettiva apparente contro nemici e sabotatori che in questi anni avrebbero in mille modi ostacolato l’autore, salvo poi scoprire che il destinatario della canzone (e dunque delle accuse) è lui stesso.
Oppure la successiva “Buco nero”, con un beat che non è mai stato così scuro, che inanella una galleria di personaggi sulla scia di quanto fatto nel disco d’esordio, tutti alle prese con le piccole battaglie quotidiane, salvo poi domandarsi “cosa c’è davvero sotto al vestito”, mandando all’aria le regole non scritte della società e scoprendo inesorabilmente un nulla con cui non ci è dato di sapere se faranno o meno i conti.
“Davos” è una di quelle più vicine al lavoro fatto con Tutti Fenomeni, si muove tra satira, critica sociale, riferimenti politici e citazioni di Thomas Mann, e l’impressione generale è che, per quanto l’umanità provi a darsi ideali e punti fermi, sia comunque ridotta a navigare a vista, costantemente alla deriva.
Non mancano le bordate contro il politically correct imperante, quell’atteggiamento che ha fatto di Contessa un non allineato a cui, in fin dei conti, si perdona tutto perché quello che pensa sa dirlo benissimo: in “f.c.f.t.” (che sta per “Fare come fanno tutti”) e in “Nella parte del mondo in cui sono nato”, si ritrovano echi dei vecchi Cani, dalla cassa dritta alle melodie di facile presa, fino ai testi ricchi di immagini icastiche e slogan da antologia (“Vivere è fascista, nascere è reato, vivere è capitalista, nascere è peccato” la migliore in assoluto) ma anche qui, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad uno sguardo più maturo e distaccato, frutto dell’invecchiamento anagrafico, certo, ma anche da una volontà di startene in disparte che, ora ne siamo certi, gli è servita davvero.
Non mancano le incursioni del cantautorato: “Felice” si muove attorno a reminiscenze di Battiato ed è, tanto per tenere fede al titolo, tristissima; “Un’altra onda” è una ballata acustica lontanissima dalle cose che ci saremmo aspettati da Niccolò, ed è un’ulteriore prova che in questi anni dietro le quinte è maturato in una maniera davvero insospettabile.
Per non parlare poi di “Buio” e “Carbone”, che scombinano ancora di più le carte in tavola di un disco già fin troppo vasto e denso di riferimenti, andando a pescare nei territori della Dark Wave.
Diciamocelo chiaramente: quanti di voi si sarebbero aspettati che I Cani sarebbero tornati davvero? E quanti pensavano che lo avrebbero fatto così, con un disco così vario, così poco immediato, così imprevedibile e così adulto?
Niccolò Contessa è ormai andato oltre tutto: non c’è più l’Indie, non c’è più l’It Pop, c’è solo lui con quello che di volta in volta ha voglia di fare. Inimitabile.