Post Human: Survival Horror doveva essere solo il primo dei quattro EP del Post Umano, nati in periodo pandemico per rispondere all’esigenza workaholic di Oli Sykes, che dopo l’uscita dalla dipendenza da ketamina di diversi anni fa era caduto prima nella dipendenza da lavoro (trovando in Jordan Fish il musicista e produttore ideale con cui realizzare tutti i suoi sogni più spinti) e poi nella dipendenza da successo. Invece il risultato è stato molto più ampio e profondo.
Nonostante la brevità il disco si è rivelato enormemente impattante, straordinariamente bello e terribilmente influente: ha raccontato la pandemia come nessuno e prima di altri, ha intercettato i giusti riferimenti musicali e (come da tradizione dei Bring Me The Horizon) anticipato sia le tendenze sia le necessità di fan e pubblico. È divenuto un EP composto di soli singoli, tanto che anche nei successivi tour la band è sostanzialmente obbligata a suonarlo quasi integralmente. Se già i BMTH erano ritenuti alfieri e imperatori del metalcore di matrice più sperimentale, con Survival Horror hanno consacrato la corona.
Nel frattempo TikTok - che si conferma il generatore di trend più imprevedibile di questo decennio - ha permesso l’esplosione a sorpresa del singolo “Can You Feel My Heart?”, parte dell’incredibile Sempiternal (2013), portando tutta una nuova fetta di pubblico alla band, che, ascoltato pure Survival Horror, ora chiedeva a gran voce nuovi tour e nuova musica.
Come gestire il successo? Come realizzare il prossimo passo?
Il secondo EP aveva l’obiettivo di abbandonare la rabbia aggressiva del primo capitolo per esplorare il post hardcore dei primi anni Duemila unito ad un certo sentore emo ma con un afflato positivo, ovviamente sempre in versione BMTH; lo scopo è stato raggiunto, ma nel frattempo l’apocalisse da videogioco era virata nel fantascientifico e la EVE di “Parasite Eve” è divenuta un’AI in stile HAL 9000 di 2001 Odissea nello spazio, pronta a guidare la ciurma verso lidi inesplorati. Anche in questo caso, le cose non sono andate esattamente come pianificato e tutto è divenuto più gigantesco di quanto preventivato.
Anzitutto Oli si è reso conto di non riuscire a scrivere testi positivi, in secondo luogo gli anni pandemici hanno fatto sì che la dipendenza da lavoro e la distrazione euforica da amore dei fan sul palco, una volta chiuso tutto a causa del Covid, generassero un nuovo vuoto, che l’ha portato ad una ricaduta nella ketamina, costringendolo ad un nuovo processo di riabilitazione, ma anche in un certo senso ad un processo di illuminazione, nei contenuti e nei modi. L’intero disco è divenuto quindi una battaglia tra luce e oscurità e ogni canzone dell’album ha avuto l’obiettivo aggiuntivo di cercare di servire a tre scopi: quello che significa per Oli a livello personale, quello che significa a livello sociale e quello che significa in diretta connessione con la narrazione del disco.
A livello personale Nex GEn è la lotta di Oli per la felicità e per il definitivo superamento dalle dipendenze, facendo sì che il disco non fosse un album felice come previsto, bensì uno che raccontasse le insidie e le difficoltà nella ricerca della felicità e dell’appagamento personale.
A livello sociale Nex GEn è la rappresentazione delle luci e (molte) ombre della nostra società, che offre distrazioni e sovrastimolazione (leggi social media) per poi addomesticarci e defraudarci: felicità finta che annulla la possibilità di raggiungere quella reale, meno appariscente ma più solida; ma anche società che mostra nei conflitti e nella disinformazione le sue ombre e lati peggiori, costringendo quell’afflato di bontà insito nella migliore parte dell’umano a farsi sempre più piccola e silenziosa.
A livello narrativo Nex GEn è un videogioco futuristico e colmo di riferimenti, richiami e easter eggs, dove una rinnovata EVE ci guida in un processo di scoperta alla ricerca di risposte.
Se le fonti di ispirazioni per Survival Horror erano una lunga sequela di affascinanti videogiochi, in questo caso la ricerca della felicità ha richiesto un riferimento diverso, il libro di Don Miguel Ruiz, I quattro accordi. Don Miguel Ruiz è un maestro spirituale (lo notate l’ironico richiamo a “Mantra”?) e rinomato autore messicano che ha dedicato la sua vita allo studio della saggezza trasmessa dal popolo dei toltechi, una tribù precolombiana messicana che esaltava il principio della libertà e professava come nulla ci sottomette tanto quanto dipendere da quello che dicono o fanno gli altri. I toltechi basavano la loro esistenza su quattro dettami cardine, che Ruiz ha raccolto, rielaborato e rappresentato in quattro principi in base ai quali una persona dovrebbe vivere per stare bene con sè stessa e nel mondo.
Se siamo impeccabili con la parola, se non prendiamo le cose a livello personale, se non supponiamo nulla e facciamo sempre del nostro meglio, saremo in grado di controllare la nostra vita. Questo l’insegnamento dei quattro accordi e questo ciò che Oli mira a comunicare (a modo suo) con Nex GEn.
Ed è così che “YOUtopia”, la prima canzone di Nex GEn, acquisisce un nuovo senso. Non solo un brano melodico e quasi solare come ci si aspetterebbe dalla previsione solar-emo annunciata, ma una canzone che espone per la prima volta il problema da superare, quello di voler essere ancora qualcun altro e di rifiutare o fuggire da se stessi. In un verso Oli dice “C'è un posto in cui voglio portarti, ma io stesso non ci sono ancora arrivato”. Ed è tutta qui, la ricerca della felicità, in un disco che non è felice, ma che spiega come si lotta per cercare di diventarlo.
Ed è così che “sTraNgeRs” non è solo uno dei singoli potenti e melodici più belli dell’album (oltre che già un classico che i fan cantano a cuore aperto e gole spiegate), ma parla da un lato dell’esperienza di disintossicazione, della presa di coscienza dell'idea di condividere il tuo dolore con altre persone, di come tutti abbiano vissuto cose diverse e spesso alcune molto peggiori di altre e di come tutti siamo in realtà solo alla ricerca di sicurezza; ma dall’altro parla anche dell’Ucraina e dei rifugiati, di tutte le persone che alla fin fine sono solo donne, uomini e bambini alla ricerca di sicurezza.
Una parte del disco è definita dallo stesso Oli come “trilogia della riabilitazione”, le eccezionali: “n/A” (la sessione di gruppo, dove il ritornello “Hello Oli, you fucking knobhead” è stato registrato a sorpresa durante un tour inglese a gennaio con le voci dei fan accorsi al concerto), “Lost” (la sessione di terapia uno a uno) e “Strangers” (la presa di coscienza della necessità di condividere il tuo dolore con altre persone, perché non puoi farlo da solo).
Ma poi ci sono anche canzoni come l’emo-metal di “a bulleT w/ my namE On”, in cui sono coinvolti gli Underoath, dove con il criticatissimo testo “Se Gesù Cristo tornerà, uccideremo quello stronzo due volte” Oli vira più prepotentemente sul versante sociale, mirando in realtà a criticare il conflitto Israele-Palestina e a come spesso non si pensi mai alle vittime, tanto che quella frase vuole essere proprio il grido di rabbia e disperazione delle vittime nei confronti delle persone al potere: anche se tornasse sulla Terra Gesù in persona verrebbe ucciso di nuovo per la seconda volta, perché chiunque nella Storia sostenga la pace o il cambiamento verrà semplicemente annientato.
Rispetto agli ospiti illustri, oltre a Spencer Chamberlain e Aaron Gillespie degli Underoath, non si può non nominare Daryl Palumbo dei Glassjaw e il rapper Lil Uzi Vert nella favolosa “AmEN!”, che ha il bellissimo inside joke per cui al termine della meravigliosa e sperimentale “R.i.p. (duskCOre Remix)”, in cui un prete recita “Siamo qui riuniti oggi per onorare la memoria dei f***. E anche se non sono più con noi vivono nei nostri pensieri e nei nostri cuori (Dio mi benedica). Inizieremo la cerimonia di oggi con alcune parole di un caro amico...”, la successiva “AmEN!” gli risponde in un rabbiosissimo scream “Spero che vi divertiate a marcire all'inferno. Fai nuotare la strega, uccidi l'infedele. Succhia un c***o, eretico. Ti odio e vorrei vederti bruciare, bruciare, bruciare”.
Tra tutti i featuring, però, il più inatteso è quello con Aurora, che Oli considera il migliore esempio di pop star attuale e futura (“qualcuno che ha le canzoni, ma è una persona vera che osa dire ciò in cui crede e se ne frega del mondo”) su “liMOusIne”, una canzone che affronta il tema delle abitudini ripetitive e della scelta più semplice di uno sballo istantaneo, piuttosto che di un lungo percorso per essere davvero felici ma a fronte di una fatica iniziale maggiore. Il brano, inoltre, è influenzato pesantemente dai Deftones fino quasi a sfiorarne la parodia (alla faccia delle influenze post hardcore anni Duemila), ma per la virata di stampo BMTH non si è spesa una variazione di tonalità o stile vocale di Oli, quanto piuttosto l’intervento di Aurora, che con voce soave e angelica ribalta le sorti dei fangosissimi groove alla Chino Moreno.
Si è parlato di un EP divenuto album, delle sue stratificazioni di significato a tre livelli, del suo obiettivo di senso, ma non si è accennato all’ulteriore modificazione inattesa che ha visto protagonista Next GEn: la sua realizzazione in una formazione decisamente diversa da quella proposta negli ultimi album della band, a seguito dell’allontanamento di Jordan Fish. Il produttore e tastierista è stato per anni amico e “compagno di giochi” di Oli, insieme i due hanno costituito un duo a dir poco vincente, dove la smania creatica e workaolic di Oli ha trovato una sponda competente e brillante in Jordan, portandoli a comporre non solo moltissimi brani, seguendo le più diverse volontà creative di Oli, ma anche ad una velocità incredibile, tanto che gli altri membri della band hanno dovuto sostanzialmente fare un passo indietro.
In risposta al successo sempre più enorme che i BMTH hanno affrontato, se da un lato Fish non aveva problemi a proseguire nella ricerca e consolidamento del successo creando soluzioni sonore sempre più accattivanti e magistralmente prodotte (molti dei singoli presenti in Next GEn lo testimoniano una volta di più), Oli si è reso conto che il rischio era proprio cadere nella trappola della finta felicità: inseguire la fama abbandonando la gioia creativa che aveva sin da bambino, un percorso che gli stava facendo odiare l’album e rimandare sempre più la sua conclusione. Il sodalizio si è quindi concluso, amichevolmente anche se con le ferite tipiche di un rapporto tra due persone che si stimano ma che sono costrette ad allontanarsi per divergenze professionali e i BMTH sono tornati alle origini, abbandonando il processo di scrittura digitale che aveva per anni permesso la realizzazione di demo interamente in Pro Tools e MIDI e con l’aiuto dei più svariati sintetizzatori e tornando a suonare dal vivo fin da principio. Oli ha riscoperto i suoi compagni e, vedendo la loro gioia nel vedersi nuovamente protagonisti del processo creativo, ha riscoperto la chimica che li aveva uniti nei primi album, permettendo al gruppo di scrivere insieme la bellissima “Kool-Aid”. Si è quindi rimesso mano al senso e alle canzoni di Next GEn portandolo a conclusione dopo pochi mesi.
Se però gli irriducibili fan dei primi album si aspettano un disco o un futuro prettamente metalcore si sbagliano, perchè la rinnovata chimica non ha eliminato la sperimentazione quanto l’ha paradossalmente acuita, permettendo ai britannici semplicemente di realizzare tutto ciò che avevano in mente, alla faccia dei gusti, desideri e volontà di chicchessia, anche dei loro fan. Perchè i Bring Me The Horizon non forniscono mai ai loro ascoltatori ciò che vogliono o che aspettano, ma solo un pizzico di desiderio realizzato, a fronte di un enorme e ignota scommessa nei confronti di ciò che non sapevi di volere o non pensavi di considerare.
Il futuro? Oli ce l’ha già in testa ma non lo rivela, facendo solo trapelare in un’intervista a NME che la narrazione proseguirà da “DIg It”, una sorta di incrocio agrodolce tra una lettera d'addio e una lettera di buon augurio che testimonia la necessità di “uccidere” una parte di se stesso per poter guarire completamente. Nel terzo atto in genere le cose vanno molto male e si attende la caduta nel baratro dell’eroe prima dello sfolgorante finale, ma chi lo sa, Oli ha tutta la folle creatività necessaria a realizzare ogni suo piano o a scombinarlo nelle maniere più varie.
Next GEn, nel frattempo, nei suoi 55 minuti da album vero e proprio (altro che secondo EP), regala un’inedita unione tra sound anni Duemila, ibridazioni GenZ e sperimentazione fantascientifica, dove l’aspetto personale e quello sociale prendono il sopravvento, ma ammantate da un aura d’ispirazione cyberpunk. Un connubio dove l’ascolto e la sua percezione mutano profondamente nel tempo, da principio lasciando spazio alla sorpresa e alla confusione, per poi aprire alla possibilità di urlare al genio, sino alla facoltà di riconoscere distintamente così tanti richiami alla musica degli anni Duemila da non sapere più perchè lo si è considerato innovativo, per poi permettere l’occasione di approfondire richiami, storie e ispirazioni, tanto da far coesistere tutte queste sensazioni in un unico caleidoscopico e multiforme ventaglio, che ad ogni colpo di polso regala ventate di sensazioni ed emozioni differenti e talvolta contrastanti, forse tante quante sono quelle che si provano nel camminare in quell’impervio percorso che promette di far approdare alla felicità.