La svedese Karin Dreijer Andersson, conosciuta soprattutto per i The Knife, il duo messo in piedi col fratello, torna al progetto Fever Ray dopo otto anni di silenzio e lo fa nella maniera più inaspettata, con la condivisione improvvisa di un nuovo brano, “To the Moon and Back”, il cui video morboso, dall’immaginario fetish piuttosto marcato rappresenta già di per sé una dichiarazione d’intenti.
Da una canzone sola si capisce poco ma la distanza dal precedente disco d’esordio non avrebbe potuto essere più marcata. Sensazione che si è in seguito accresciuta con l’ascolto del secondo singolo, l’avvolgente e melanconica “Mustn’t Hurry”, anch’essa dotata di un video che ci conferma come l’aspetto visivo in questo lavoro sia particolarmente importante.
Distanza, dicevamo, evidenziata anche nelle rispettive copertine: se l’omonimo debut aveva un’illustrazione in bianco e nero a tinte scure, dove Karin era presentata con look aggressivo, occhiali da sole, capelli sciolti a mostrare nel complesso tutta la sua femminilità, qui c'è un’immagine a colori, dove l’azzurro dello sfondo si sposa al biondo acceso dei suoi capelli, generando un senso di chiarore, di luminosità in qualche modo tranquillizzante. Il viso della Dreijer è però alterato, i capelli corti e dei rivoli di quello che sembrerebbe sangue a disegnare inquietanti pitture (tra queste, il monicker Fever Ray è chiaramente visibile). A completare il tutto, lo sguardo vacuo e gli occhi rosso acceso, sorta di spirito proveniente da un altro mondo.
C'è una evidente volontà di decostruzione, nei solchi di questo “Plunge”; un volersi immergere (per parafrasare il titolo) in nuovi ambienti sonori, un voler scomporre la propria musica, sezionare i brani a tavolino, montare i suoni uno sopra l’altro a creare atmosfere nervose, scattanti, luminose ma nello stesso tempo punteggiate di inquietudine.
È un disco dove la forma canzone è senza dubbio presente (i due singoli citati lo dimostrano) ma dove le sonorità non sono più quelle Electro Pop del primo lavoro, in un certo senso più prevedibile dal punto di vista della scrittura.
Qui si flirta in maniera decisa con la Dance, la Techno, con Beat incalzanti e a tratti ossessivi (l’iniziale assalto sonoro di “Wanna Sip” lo dimostra in pieno); la voce c'è ed è sempre quella, registro alto, volutamente fastidioso in certi frangenti, trattata con buone dosi di filtri ed effetti vari. La sensazione però è che al centro ci sia la componente strumentale, che spesso e volentieri si prende i suoi spazi (si veda su tutte la title track, che è una lunga fuga da Dance Floor spinto, ma anche l’introduzione di “Falling”, col suo rumorismo e gli accordi di Synth vagamente stranianti), dandoci l’impressione di canzoni scritte a partire dai Beat, piuttosto che dalle linee vocali.
Ho letto giudizi che parlavano di “disco prevedile” ma permettetemi di dissentire: lo spettro sonoro è decisamente vario, se si può passare dal martellamento di “IDK About You”, dove Karin costruisce un refrain vocale memorabile nella sua semplicità e dove nella coda sembra quasi voler remixare se stessa, alla cupa malinconia di “Red Trails”, magnificamente sostenuta da un violino struggente e sulla quale pare aleggi lo spettro dell’ultima Bjork.
“Free Abortions and Clear Water, Destroy Nuclear, Destroy Boring” è il manifesto ribelle di “This Country”, versi che un po' tutti stanno citando ammirati, per mettere in evidenza il lato più esclusivamente politico di questo lavoro. In effetti ha una sua efficacia comunicativa, al di là del fatto che se si va a vedere, scopriamo che si tratta della solita canzone di protesta che in questi tempi sembra andare così tanto di moda.
Andando a scavare, dentro “Plunge” c'è molto più di questo. Dicevamo della decostruzione: “Meta Pop” è una delle espressioni maggiormente tirate in ballo nelle recensioni che ho avuto modo di leggere e se dal punto di vista dei contenuti musicali l’etichetta non è fuorviante, essa riflette in qualche modo anche il lavoro testuale. Reinventarsi, ridisegnare una nuova immagine del proprio io, passando attraverso la sfida dei rapporti affettivi e tirando in ballo anche la propria dimensione sessuale. La stessa autrice ha descritto questo lavoro come pregno di attitudine “Queer Positive”, dichiarando inoltre che, a suo parere, alla base di ogni educazione dovrebbe esserci quella che considera l’amore eterosessuale solo come una delle tante varianti disponibili (una cosa del genere, non ricordo le parole esatte).
Effettivamente in questo lavoro di scomposizione e ricomposizione c'è tanto anche di questa dimensione: “I wanna love you but you’re not making it easy, I wanna love you but it’s not easy” canta in “Wanna Sip” come se fosse una dichiarazione programmatica. E ancora, in “To the Moon and Back”: “I want to run my fingers up your pussy”, un altro verso esplicito che sta facendo il giro del web e che si sposa alla perfezione con la scena di pissing del video di cui si parlava in apertura. Roba forte, insomma. Che non ha però l’aria di essere volutamente provocatoria quanto sincera, una sorta di domanda di quale sia la forma autentica dell’amore, di come si possa fare, nella molteplicità e nella complessità che siamo, ad arrivare a conoscerci e a volerci bene davvero.
La risposta, come era anche ovvio che fosse, arriva alla fine, in “Mama’s Hand”, dove flauto e percussioni si sposano in un brano dal feeling ipnotico, quasi catartico dopo tutti questi stimoli sonori : “The Final Puzzle Piece, This Little Thing Called Love”. Già, perché Karin Dreijer, madre di due figli, non poteva che ripartire da qui, per trovare un filo che tenesse unito tutto. L’esperienza personale, in fin dei conti, è ancora lo strumento più utile che abbiamo per rispondere agli interrogativi che la vita pone davanti.
È uscito ai primi di dicembre, quasi fuori tempo massimo per finire nelle famigerate classifiche di fine anno. Meglio così, in fondo: si rischierebbe di chiudere troppo in fretta la pratica mentre invece “Plunge” è un disco che va ascoltato a lungo e assimilato a dovere. Vi darà fastidio, molto probabilmente; e sono convinto che lei stessa ha voluto così. D’altronde l’arte, se autentica, dovrebbe sempre un po' disturbare e qui, senza dubbio, siamo di fronte a qualcosa a cui si può dare questo nome.