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REVIEWSLE RECENSIONI
10/11/2023
James Blake
Playing Robots into Heaven
James Blake torna alle sue radici post-dubstep con “Playing Robots into Heaven”, uno dei dischi più eclettici e sinceri della sua carriera.

Sono passati quasi quindici anni dai suoi esordi e il corpus sonoro di James Blake nel frattempo ha subito un’evoluzione significativa. Se con i primi EP e l’album d’esordio aveva esplorato le profondità sperimentali della dubstep e della bass music, con il passare del tempo James si è concentrato prima più sulla forma canzone (Overgrown e The Colour in Anything) e poi sulla produzione e l’arrangiamento (Assume Form e Friends That Break Your Heart ), due skills che gli hanno permesso di arrivare ai vertici della musica r&b e hip-hop contemporanea, lavorando con artisti di seria A del calibro di Beyoncé, Jay-Z e Travis Scott.

Senza più niente da dimostrare, con Playing Robots into Heaven James Blake torna alle origini, riscoprendo il sound dei club dove ha mossi i primi passi. E se ultimamente amava farsi circondare da diversi ospiti, molti dei quali suoi clienti (Travis Scott, SZA, Rosalía, André 3000), in Playing Robots into Heaven James è tornato a fare tutto da solo come agli esordi. Questa autarchia estrema paradossalmente ne amplifica e accentua la versatilità, portando Blake verso territori musicali mai toccati prima.

 

L’album si apre con “Asking to Break”, una serenata che fonde delicati pianoforti con un beat dubstep su cui si sviluppa una serie di loop vocali manipolati, dove il falsetto di Blake si erge come elemento centrale. La successiva “Loading” si sviluppa con ritmi da club che si dispiegano pazientemente, accompagnati da voci parzialmente frammentate. “Tell Me”, uno dei migliori pezzi del disco, è caratterizzato da  synth ronzanti e breakbeat accelerati, mentre “He’s Been Wonderful” e “Big Hammer” offrono un discreto campionario di texture sonore. La prima è contraddistinta da una serie di sample gospel manipolati su una base trap robotica, mentre la seconda vede l’intervento dei Ragga Twins, pionieri della dancehall e del raggamuffin inglese.

Un altro pezzo forte dell’album è senza dubbio “I Want You to Know”, uno shuffle garage che richiama lo stile distintivo di Burial e nel ritornello cita “Beautiful” di Snoop Dogg, mentre “Fire the Editor” e “If You Can Hear Me” vedono Blake esplorare tematiche personali. Nella prima nel ritornello James si crogiola nel senso di sconfitta («I’ve already failed so many times»), mentre nella seconda si rivolge con estrema vulnerabilità al padre su un serpeggiante loop di pianoforte.

 

Chiuso dalla title track, che funge da vera e propria exit music, Playing Robots into Heaven si distingue come uno dei lavori più eclettici (e proprio per questo sinceri) della carriera di James Blake. Il ritorno alle radici da producer post-dubstep che gioca con i sintetizzatori modulari senza particolari sovrastrutture gli ha permesso di riscoprire quella spensieratezza che aveva caratterizzato i suoi esordi a cavallo degli anni Dieci. Non che James Blake avesse bisogno di ribadire il suo posto nel mondo (per quanto accolti freddamente, Assume Form e Friends That Break Your Heart sono due signori dischi e c’è letteralmente la fila per lavorare con lui), ma forse un album di puro divertimento, che testimoniasse la sua continua evoluzione artistica e la sua capacità di esplorare nuovi territori sonori, era esattamente quello che serviva a questo punto della sua carriera.