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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
06/03/2023
Buddy Guy & Junior Wells
Play the Blues
La leggenda narra che Junior Wells incroci la prima volta Buddy Guy nel 1958, quando quest’ultimo, appena arrivato a Chicago, surclassa lui e Magic Sam durante una competizione musicale. È certo, invece, che i due, qualunque cosa sia realmente accaduta, diventano buoni amici e le loro strade si intersecano più volte, prima e dopo questo straordinario “Play the Blues”, inciso e in seguito pubblicato quasi per caso. Un album colmo di passione che, a distanza di più di cinquant’anni, rimane una pietra miliare del genere.

“Ero ancora un teenager, ma sentivo che quella era la mia strada. Ho cominciato a imparare tutte quelle ‘vecchie’ canzoni dai più grandi artisti blues della scena di Chicago. E loro non mi hanno mai ostacolato, anzi pensavano fosse una cosa strana e divertente osservare un giovane che eseguiva il loro materiale e mi hanno coinvolto nei loro spettacoli”. (Junior Wells)

 

Junior Wells, classe 1934, fa parte di quella legione di giovani afroamericani ispirati a suonare l’armonica dal grande Sonny Boy Williamson. Acquista il suo primo strumento a nove anni per 25 cent e da allora il fuoco del blues mai si spegne: oscilla tra Chicago e Memphis, suo paese d’origine, impara il mestiere da Junior Parker e Forest City Joe, riesce a guadagnarsi la loro stima, oltre a registrare in studio e calcare il palco con altri giganti, da Tampa Red a Muddy Waters, fino a diventare egli stesso bandleader, da qui la scelta di vivere in pianta stabile nella Windy City. All’epoca del primo incontro con Buddy, il buon Junior ha già inciso una ventina di pezzi, accompagnato da pianisti del calibro di Otis Spann e Memphis Slim, dal leggendario Re della slide guitar Elmore James e, ultimo, ma non meno importante, da uno dei più grandi songwriter del genere, l’incredibile bassista e produttore Willie Dixon.

 

“E pensare che all’inizio ero letteralmente travolto dalla timidezza, cantavo quel famoso motivo di Hank Ballard, ‘Work with Me, Annie’ con il viso rivolto verso il muro, spalle al pubblico. Poi, improvvisamente, mi sono sbloccato e, con B.B. King come mentore, è stato l’inizio del mio interminabile viaggio nella musica che più amo e che è diventata ragione e filosofia di vita”. (Buddy Guy)

 

Buddy Guy nasce a Lettsworth in Louisiana nel 1936, e rimane folgorato dallo stile di Lightnin’ Hopkins e Eddie “Guitar Slim” Jones, ma è con T-Bone Walker che trova chi incarna perfettamente ciò che vorrebbe essere: l’artista texano rappresenta, insieme a B.B. King, la sua maggiore influenza, tanto da arrivare a definirlo “un vocabolario musicale per chitarra elettrica” e anche le sue doti da showman consumato lo colpiscono particolarmente. Quando Buddy si trasferisce a Chicago, riesce velocemente a entrare in contatto con Williamson, Waters, Howlin’Wolf e Little Walter, e nel 1960 è il turno della prima collaborazione con Junior, suggellata da alcune incisioni in studio. In breve tempo il chitarrista americano ottiene un discreto successo con First Time I Met The Blues e Stone Crazy, ma, nonostante tutto, non molla gli svariati lavori che di giorno la città gli offre, da operaio nel mondo automobilistico ad autista di carro attrezzi. Fa tutto questo per mantenere la sua famiglia, che in pochi anni diventa numerosa, però, di notte, si esibisce nei blues club, ricevendo ampio clamore e seguito. Il primo viaggio in Inghilterra avviene nel 1965, collegato a un tour europeo che evidenzia quanto nel Vecchio Continente vi sia uno stuolo di fan addirittura più nutrito rispetto a quello negli States. Virtuosi e antesignani del British blues revival del calibro di Eric Clapton e Jeff Beck accolgono come un eroe lui, considerato illuminato veterano del genere, e gli altri musicisti coinvolti, dando così forza e nuova credibilità a questi “moderni artigiani della musica del diavolo”.

Il Newport Folk Festival del 1967 rappresenta il momento topico in cui Junior e Buddy si rendono conto di essere un’incredibile potenza se si esibiscono insieme, e tre anni dopo si uniscono in una sola band per aprire le date dei Rolling Stones. Durante gli show di Parigi a Settembre, fanno capolino il mitico Ahmet Ertegun, boss della Atlantic Records, interessato a quell’epoca a proporre un contratto a Jagger e soci, ed Eric Clapton, il quale esclama: “Dovresti assoldare quei ragazzi, sono fantastici !”. Il caro Ahmet, da saggio dirigente e appassionato conoscitore di musica prende la palla al balzo, “Se li faccio entrare nella mia casa discografica, produrrai tu il loro album?”, ed ecco cominciare l’odissea della registrazione di un disco che vede la luce per miracolo solo due anni dopo.

 

Le sessioni di Buddy Guy & Junior Wells per Play the Blues iniziano (e terminano) ai mitici Criteria Studios di Miami nei primi giorni di Novembre e, fra le tante jam, otto canzoni risultano consistenti e praticamente complete, tanto da entrare nella tracklist dell’LP. Grazie a Michael Cuscuna, giovane impiegato dell’Atlantic che convince i suoi capi della validità dell’opera, nella primavera del 1972 avviene il prodigio; con alcune sovraincisioni e l’inserimento di altri due brani, finalmente il progetto si concretizza, dopo esser stato abbandonato negli umidi scantinati della casa discografica per troppo tempo. Così uno dei più genuini album di blues viene salvato per merito della lungimiranza e passione di un ragazzo, in seguito ricordato nella veste di raffinato autore, musicista e produttore di jazz.

Basta ascoltare la frizzante opener "A Man of Many Words" per ribaltarsi dalla sedia, tanta è l’energia immessa dai musicisti, anche se in questo brano è Buddy Guy a prendersi tutta la scena. Il suo stile è inconfondibile: brillantezza tecnica, impetuosa carica emotiva, notevole vena compositiva e un travolgente senso ritmico. “I rap strong and I know I rap long”, si vanta bellamente nel testo il bluesman, ora non più timido come in giovinezza, mentre si è immersi in un groove funky e in feroci “guitar solo” simili a tuoni, dopo i lampi vocali. In "My Baby She Left Me (She Left Me a Mule to Ride)", superbo adattamento di un’incisione del 1941 di Sonny Boy Williamson, la pregiata "Shotgun Blues", sale alla ribalta invece Junior Wells, che mette tutto se stesso anche nel medley autografo "Come on in This House/Have Mercy Baby", profonda elegia in 12 battute; la sua interpretazione è intensa e Guy risulta, come al solito, fenomenale con la sei corde; inoltre piace particolarmente il suono languido del sax tenore dell’istrionico A.C. Reed, un vero maestro dello strumento e del genere, presente anche in altre tracce dell’opera, come pare azzeccato l’inserimento del piano bluesy di Michael Utley, in seguito membro chiave dei Coral Reefer di Jimmy Buffett.

 

Il suono pulito di T-Bone Walker riecheggia nella rilettura della sua celeberrima "T-Bone Shuffle", ove Buddy è impeccabile nel riprodurre e personalizzare lo stile innovativo del texano. Il pezzo fila via liscio come l’olio ed è occasione per presentare un altro ospite speciale dell’album, l’indimenticabile Dr. John, the night tripper, prezioso e colorato funambolo del piano, sempre unico e impareggiabile nell’accarezzare la tastiera. È interessante notare come "A Poor’s Man Plea" sia un’invenzione a tutto tondo di Wells, con quel groove monocorde che coinvolge sassofono, armonica e chitarra e prosegue incessantemente, ricordando "Smokestack Lightnin’", lo standard di Howlin’ Wolf, peraltro virandolo con esperienza su altri territori, laddove tutti gli strumenti si amalgamano senza che uno prevalga sugli altri.

Una delle vette del disco è il funky dalle sfumature R&B di "Messin’ with the Kid", incisa e composta da Junior Wells nel 1960, suo cavallo di battaglia indimenticabile, riproposto in questa raccolta in una versione impeccabile. "Papa’s Got a Brand New Bag" di James Brown sicuramente deve tanto a tale composizione, e questo è il bello della musica, che, quando genuina e spontanea, diventa trampolino di lancio per nuove idee e nuovi artisti.

 

“Suonare insieme a loro? State scherzando? Con giganti dello strumento e del genere come loro non esiste storia e ragione per farlo. Ho solo svolto il mio lavoro di produttore con la supervisione di Ertegun e Tom Dowd”.

 

Per la verità l’umile dichiarazione di Eric Clapton non corrisponde proprio a realtà. "Slowhand" si limita alla chitarra ritmica per quasi tutto l’album e si ode anche in "I Don’t Know", classico di Willie Mabon (sarà ripreso pure nel primo album dei Blues Brothers) rivisitato in maniera eccellente, con la french harp di Wells subito in evidenza e poi piacevolmente intersecata fra cantato e colpi di genio da parte di Guy. Ma in "Bad Bad Whiskey" fortunatamente Clapton non rispetta quanto affermato sopra e accompagna i “ragazzi” per tutta la durata del motivo con la slide, lasciando il segno: l’edizione speciale a 2 CD, limitata a una tiratura di 2.500 copie uscita nel 2005, offre altre perle di tipo simile (vengono aggiunti addirittura 13 brani) e meriterebbe un’ampia diffusione, soprattutto per dimostrare la naturalezza e lo spirito naive di quelle registrazioni e l’empatia tra i protagonisti.

Meritano un capitolo a parte "This Old Fool" e "Honeydripper", poiché facenti parte delle sessioni della primavera 1972, che consentono di completare il lavoro pur se solo con il contributo di Guy. I musicisti di supporto sono di assoluto rilievo, il produttore fresco di nomina Cuscuna assolda la J. Geils Band, storico gruppo dalle attitudini rock blues del Massachusetts, il quale si rivela la scelta più appropriata  e permette di rendere esiguo il distacco dal punto di vista qualitativo e quantitativo con il materiale precedente. In particolare la prima traccia citata nasce da un’intuizione di Buddy che si ispira come struttura alla famosa "Big Boss Man" di Jimmy Reed, ma poi cresce di propria forza, con un assolo di Stratocaster da favola. "Honeydripper" è una cover del classico scritto dal pianista e bandleader Joe Liggins, da cui nasce il nome del suo ensemble The Honeydrippers, in onore del successo di questa composizione nel 1945.  Si tratta di uno shuffle profumato di R&B, incarnante lo scenario di vitalità musicale e artistica della West Coast di quel periodo; viene qui riproposto senza soggezione, con accuratezza e limpidità di suoni, e colpisce per l’inizio pigro e sornione, in seguito solleticato da una chitarra rovente e maniacale.

Buddy Guy e Junior Wells dopo Play the Blues proseguono la partnership live e in studio in maniera intermittente sino agli anni Novanta, poiché entrambi impegnati nella carriera solista e di session man. L’ultima collaborazione è datata 1993, in Better Off with the Blues, ma i musicisti rimangono amici fino alla fine, quando, cinque anni dopo, purtroppo, nel gennaio 1998 Wells viene a mancare dopo una serie di problemi di salute gravi, tra cui un cancro e un infarto. Paradossalmente il momento migliore dal punto di vista commerciale di Guy comincia quando il rapporto con Wells tende ad affievolirsi, però è solo un caso collegato alle mode e agli alti e bassi vissuti da questo genere, che ciclicamente vive di revival e ammodernamenti, necessari per mantenere la tradizione. Il tempo, comunque, quasi sempre è galantuomo, e le collaborazioni con il suo compagno di mille avventure rimangono capisaldi della categoria, canzoni da tramandare per non dimenticare la centralità del blues per lo sviluppo della musica moderna.

 

“Buddy Guy mi ha colpito nel segno subito, appena ho avuto occasione di ascoltarlo a metà anni Sessanta. Ho subito adorato il suo vigore giovanile, la sua maniacalità e la sua comicità. Ha un tempismo squisito e a volte è deliziosamente fuori tono. È questo che trovo così affascinante. Ricordo che ne parlavo con Eric (Clapton) e Jimmy (Page): «Avete sentito questa roba?»". (Jeff Beck)

“Eravamo nel 1990 e Buddy, con il suo partner di un tempo, Junior Wells, andava in giro su un vecchio furgone insieme a James, il loro autista, il retro pieno di attrezzatura, percorrendo centinaia di chilometri al giorno, passando da un blues club all'altro. Allo stesso tempo, però, si trovava nuovamente a contatto con l'élite del rock britannico. In tal periodo fece alcune date con Clapton alla Royal Albert Hall, correndo al galoppo lungo la navata centrale di quel prestigioso locale, con la chitarra che urlava mentre Eric si guardava alle spalle, aspettandosi che Buddy arrivasse dal backstage”. (Don Wilcock, biografo di Buddy Guy)

“Buddy Guy e Junior Wells rappresentano l'ultima generazione dei veri musicisti blues per come li intendiamo". (Eric Clapton)