Da uno sceneggiato Rai alla Disney, da Benigni a una serie Tv. Ora, Garrone. Che riprende quel Benigni che era Pinocchio e lo tramuta in Geppetto. Che riprende il Pinocchio di Collodi e lo adatta minuziosamente. Perché se Pinocchio è un classico, è stato prima di tutto un romanzo a puntate che a questo deve la sua natura fatta di capitoli, avventure, nuovi e strani personaggi che portano un burattino che vuole essere bambino sempre più lontano dalla sua casa, da suo padre, dalla retta via. Sapendo questo, la natura del film di Garrone la si accetta un po' di più. Che queste avventure slegate fra loro le adatta, le ripresenta, facendo leva su effetti davvero speciali, su una ricostruzione fantastica, grottesca e antropomorfa dei vari personaggi.
Stupisce allora come la storia possa passare in secondo piano di fronte alle prodezze di una fotografia, di costumi e di effetti speciali che incantano. Che sembrano opere di grafica e di artisti, come già nel Racconto dei Racconti, con cui innegabilmente il rapporto è stretto. Perché la storia è sempre quella. Quella di un falegname scalcagnato che si ritrova padre, di un burattino che non sta alle regole, che preferisce il divertimento facile, tra un teatro di altri burattini, un albero dei soldi, un paese dei balocchi. Il bambino che non si vorrebbe avere, disubbidiente ma sempre salvato dagli altri o dalla fortuna. Quello che chiunque si aspetta, c'è. Ci sono il gatto e la volpe, ci sono burattinai dalla voce roca, c'è la fata turchina, c'è Lucifero e c'è la balena. Poi ci sono personaggi minori -tate-lumaca, tonni depressi, pastori dal cuore d'oro- a completare un quadro che racconta di un'Italia piuttosto misera e fredda, pronta a fregare per un tozzo di pane. Inutile nasconderlo però, in queste lunghe avventure si procede stancamente. Annoiandosi. Aspettando un finale che tarda ad arrivare, facendo la conta di chi altri manca a comparire. Il problema è dell'adattamento di per sé, che alle soglie del 2020 -visto che il film appartiene ancora allo scorso anno- poteva essere meno fedele, più moderno. Il problema è di attori che non ci mettono l'anima. Non il piccolo protagonista -Federico Ielapi-, non i tanti comprimari -Gigi Proietti, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo, Marine Vacth. Per fortuna, c'è Benigni. Di cui non sono propriamente fan, ma che ha una sua naturalezza, un suo stare in scena, in cui il cuore lo senti palpitare, proprio come quello di un tronco fatato. La forma, quella almeno, c'è tutta. C'è come detto nella fotografia, nelle luci, nei costumi e nel trucco. C'è nella scenografia, nelle ricostruzioni, nelle riprese. Ma tutto questo non basta a rendere Pinocchio un film umano. Non ad altezza di adulto, almeno. Che sente e ricorda la favola di una volta, e resta quel riflesso pavloviano all'addormentarsi in fretta.