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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
13/07/2023
Live Report
Pinguini Tattici Nucleari, 11/07/2023, Stadio San Siro, Milano
I Pinguini Tattici Nucleari, pur non essendo dei fuoriclasse, sono simpatici, sanno suonare, hanno testi non ricercati ma neppure banali. Il pubblico è entusiasta, partecipe e variegato in tutti i sensi possibili. Quello a cui si sta partecipando però non è un concerto ma un rito, perchè negli stadi, normalmente, non si va per godere della musica (che pure si sente male), ma solo per partecipare ad una festa collettiva.

C’è una considerazione che mi sento di fare, al margine dell’enorme, e per molti versi inspiegabile, successo che i Pinguini Tattici Nucleari stanno ottenendo da qualche anno a questa parte: non è affatto vero che l’approdo naturale, per una band o un artista solista, sia arrivare a riempire gli stadi. Così come sarebbe fuorviante sostenere che il raggiungimento del successo sia direttamente proporzionale alla qualità raggiunta da quella determinata band o artista.

Potremmo fare diversi esempi ma per quanto mi riguarda, se si escludono i Depeche Mode, che sono sempre rimasti coerenti con la loro proposta e non hanno mai davvero realizzato un disco che possa definirsi brutto, la maggior parte degli artisti “da stadio” hanno fatto coincidere l’approdo a questa fase con un punto decisamente opaco della loro carriera (basterebbe citare gli U2 o i Coldplay ma persino nomi come David Bowie o R.E.M., che normalmente mettono d’accordo tutti, non fanno eccezione).

È per questo che non riesco a condividere la narrativa di un brano come “Dentista Croazia”, in cui Riccardo Zanotti e soci raccontano di quando agli inizi giravano in furgone e suonavano in piccoli locali davanti a poche decine di persone; nonostante il senso del brano sia stato esplicitamente spiegato dalla band sia sui comunicati stampa che sulle loro pagine social. Non è un discorso di glorificare a tutti i costi un’estetica (ma anche un’etica) di matrice “Indie” o “Do It Yourself”. Non è per forza di cose la solita affermazione un po’ stucchevole per cui quando raggiungi il successo smetti obbligatoriamente di essere puro, e di conseguenza interessante. Niente di tutto questo, per carità. Semplicemente, la constatazione che ognuno arriva dove vuole e che se un gruppo di sei ragazzi scalcagnati è riuscito, grazie ai sacrifici e al duro lavoro, a passare dalle cantine a San Siro, non significa che se fossero rimasti all’interno di una dimensione di nicchia, sarebbero stati per forza dei falliti. Il mondo musicale è fatto di tante realtà, alcune hanno successo altre no, alcune questo successo non lo vogliono o non lo possono ottenere, altri si prefiggono semplicemente obiettivi diversi.

È successo che i Pinguini Tattici Nucleari sono passati dall’Indie al Mainstream (per semplificare all’eccesso) ma, almeno dal mio punto di vista, non mi sembra il caso di dire: “finalmente ce l’hanno fatta”. È andata così, fine. Che sia meritato o meno, che fossero meglio adesso oppure prima, è un altro tipo di discorso che si potrebbe anche affrontare ma che, detto molto sinceramente, non so se ci porterebbe da qualche parte.

 

Personalmente, il loro successo non me lo spiego del tutto. Certo, dai primi tre dischi agli altri tre c’è un salto di scrittura e di produzione notevole, pur mantenendo una continuità piuttosto evidente a livello stilistico, hanno virato molto di più verso il Pop e hanno saputo padroneggiare meglio quei meccanismi che trasformano una canzone in una hit.

Per cui, se posso capire perché una “Tetris” o una “Irene”, che pure sono già brani piuttosto fortunati del loro repertorio, non abbiano fatto il botto di una “Giovani Wannabe” o di una “Scrivile scemo”, mi riesce molto più difficile comprendere il motivo per cui oggi i Pinguini Tattici Nucleari siano il gruppo in assoluto più popolare nel nostro paese.

Sarà che non mi hanno mai impressionato, che non li ho mai seguiti neppure quando nel panorama indipendente se ne parlava con un certo trasporto, ma questa dimensione nazional popolare che hanno raggiunto proprio non me la spiego, nonostante l’impatto di certe loro canzoni sia assolutamente innegabile.

Quindi forse non si tratta di capire, bensì di accettare la realtà. E la realtà dice che, dopo avere a suo tempo riempito i palazzetti col tour di Fuori dall’hype, adesso, con l’uscita di Fake News a dicembre dello scorso anno, è il turno degli stadi.

Quest’estate le date sono undici. Da Venezia a Reggio Emilia, passando per venue storiche come il Meazza di Milano, l’Olimpico di Roma e il San Nicola di Bari, i sold out collezionati sono già sei e tutto fa pensare che altri se ne aggiungeranno. E sono sold out veri, non come quelli dichiarati a caso tanto per fare titolo, o quegli azzardi di riempire uno stadio che poi ti portano a regalare biglietti a più non posso per evitare figure di merda.

 

Sono andato a San Siro per il primo dei due concerti milanesi, il secondo in assoluto di questa leg estiva, dopo la data zero davanti a sessantamila persone al parco San Giuliano di Mestre. Quello che balza all’occhio immediatamente, ancora prima di raggiungere il posto assegnato, è la trasversalità anagrafica del pubblico: un dato abbastanza normale quando si ha a che fare con questi numeri, ma se con fenomeni del passato tipo One Direction gli adulti erano solitamente gli accompagnatori di figli e nipoti, qui l’impressione è che ogni fascia di età abbia intenzione di godersela. Tanti giovani, certo, anche giovanissimi, ma una quota consistente di over 40, unitamente a tantissimi tra i 25 e i 30. La band bergamasca è riuscita evidentemente a mettere d’accordo tutti, non si vedeva un fenomeno simile dai tempi dell’esplosione di Vasco e Ligabue, probabilmente. Questo, al di là di ogni considerazione in merito alla qualità della proposta, è un dato che non può essere ignorato (e che forse ci dice anche qualche cosa in più, come proverò a spiegare dopo).

È una serata caldissima e parecchio afosa, ci si chiede come si farà a resistere ma, a guardarsi attorno, non pare che importi a qualcuno. Alle 21, orario d’inizio previsto, i presenti sono già in visibilio. Bisognerà attendere ancora una decina di minuti, poi dagli speaker si diffonde l’annuncio che il concerto è stato cancellato. A seguire, una serie di motivi uno più improbabile dell’altro, in pieno stile Fake News. Significativo che nella carrellata di cazzate, la band si sia divertita ad inserire anche il proverbiale “Non sono più quelli di Cartoni animali” (non ricordo bene ma il senso era quello): segno inequivocabile che, nonostante il loro percorso sia stato nel complesso coerente, l’annosa questione per cui se vuoi piacere a più gente devi scendere a compromessi, si ponga comunque.

 

Il concerto comincia con la nuova “Zen”, non esattamente l’opener che ti aspetteresti, ma lo stadio è già un gigantesco karaoke, per cui, come il tastierista Elio Biffi dirà divertito più avanti: “Potevamo anche stare a casa, tanto cantate tutto voi!”.

L’atmosfera è in effetti bellissima, il colpo d’occhio di sessantamila persone che saltano e cantano all’unisono pressoché tutti i brani è ciò che costituisce la cifra fondamentale dello show, nonostante poi sul palco si faccia abbondante uso di visual, fumi, pyros ed effetti scenici vari. Il protagonista assoluto è il pubblico, quando parte “Giovani Wannabe” si capisce che, paradossalmente, l’elemento musicale questa sera è assolutamente secondario: questa è una celebrazione, non un concerto.

I Pinguini, tuttavia, non c’entrano, o c’entrano fino ad un certo punto: sono stato tante volte a San Siro ed ogni volta è stato così. È un problema più grande, che si portano dietro i concerti negli stadi. Perché negli stadi, normalmente, non si va per godere della musica, ma solamente per partecipare ad un rito. Zanotti e soci chi voleva li ha già ascoltati nei dieci anni precedenti. Adesso è solo tempo di raccogliere quanto seminato. Nulla di male, dopotutto ognuno ha le sue priorità e anche la celebrazione, la festa collettiva, ha un senso. Personalmente amo la musica dal vivo e credo che il concerto in uno stadio sia la negazione assoluta di questo concetto. Anche perché, è un particolare che in pochissimi fanno notare, visto che si insiste sempre sulla spettacolarità della cornice, a San Siro si sente di merda. Negli anni ci ho visto artisti ben più blasonati ed esperti dei Pinguini, da Bruce Springsteen ai Rolling Stones, dai Pearl Jam ai Depeche Mode; il risultato è sempre lo stesso: schifo totale.

Questa sera, se vogliamo, è addirittura peggio: le prime due canzoni sono un’accozzaglia incomprensibile di rumori, si distingue solo l’armonia principale e la voce del pubblico ci permette di capire di che canzone si stia trattando. Le cose migliorano con la successiva “Tetris”, una delle pochissime incursioni nel vecchio repertorio (beninteso, non si andrà mai più lontano di Gioventù brucata), che è musicalmente una delle più elaborate e che serve probabilmente per mettere a posto un po’ di cose. Da qui in avanti funzionerà meglio, ma l’effetto pastone sonoro rimarrà una costante, seppure a tratti i singoli strumenti si riuscissero a distinguere meglio.

 

Da parte sua, la band si comporta benissimo e non c’erano ragioni per dubitarlo, visto che è dieci anni che  in giro, ha suonato ovunque e ha maturato una bella dose di esperienza. Se potevano forse sussistere dubbi in merito alla effettiva capacità di reggere la pressione mediatica e fare bene anche su un palco di queste dimensioni e prestigio, sono stati fugati dopo pochi minuti. I sei sono una macchia perfettamente oliata, non mostrano nessun timore reverenziale ma solo la volontà di godersela. Lontani da ogni atteggiamento di divismo, consci dei propri mezzi ma anche profondamente umili e alla mano, nelle due ore abbondanti di show appariranno sempre rilassati e a proprio agio, decisi a divertirsi e a far divertire i presenti.

Riccardo (che non avrà chissà quale voce ma che è senza dubbio un frontman dotato di carisma) non è l’unico a rivolgersi ai presenti: l’unità e la comunione d’intenti tra di loro è dimostrata anche dalle continue interazioni, dal fatto che talvolta si distribuiscano certe parti vocali (la prima sezione di “Nonono” è stata cantata dal bassista Simone Pagani, mentre “Giulia”, che per la prima volta ha trovato posto nelle scalette di un tour, è stata eseguita da Elio Biffi) e che si presentino più o meno tutti a turno davanti al microfono a dire qualcosa.

 

È un concerto dove la parte per così dire “narrativa” ha un certo tipo di spazio, e non è un male. Serve a contestualizzare meglio le canzoni più impegnate (“Coca Zero”, “Freddie”, “Irene”), a richiamare momenti fondamentali della propria storia (il famoso furgone di “Dentista Croazia”, la toccante “Scatole”, che la presenza del padre di Riccardo tra il pubblico ha reso evidentemente più significativa) e anche a mettere in piedi insoliti momenti come quello del “tatuaggio in diretta” durante l’esecuzione di “Hold On”, con una ragazza presa dalle prime file (scelta in precedenza, credo) a cui è stato impresso sul braccio il titolo della canzone.

Suggestiva anche la parentesi acustica sulla pedana avanzata del palco, un espediente che è ormai un classico dei concerti nei grandi spazi, ma che loro sfruttano al meglio, sistemandosi attorno ad un tavolo colmo di bottiglie e creando un surrogato di atmosfera conviviale, che rende ancora più interessanti le esecuzioni di “Scatole”, “Giulia” e “Cena di classe”.

Trascurabile invece il momento “dj set” condotto dal chitarrista Nicola Buttafuoco, con un medley di pezzi come “Scooby Doo”, “L’ultima volta” e “Verdura”, che per ragioni di spazio sono rimaste fuori dalla scaletta.

 

Per il resto, le cartucce pesanti ci sono tutte: la poetica “La storia infinita”, l’originale ricordo di Kurt Cobain “Lake Washington Boulevard” (Riccardo ha ricordato come questa canzone sia entrata nel cuore dei fan pur non essendo mai stata un singolo), “Antartide” (bello il visual con la statua di ghiaccio della protagonista e i pinguini tutti attorno), “Ridere” (con una ragazza che ha tradotto in diretta il testo nel linguaggio dei segni), si sono alternate ai migliori episodi dell’ultimo disco (tra cui “Fede”, “Hikikomori”, il nuovo singolo “Rubami la notte”) e sentendole tutte di fila la sensazione è chiara: si possono avere tutti i dubbi del mondo rispetto al successo che stanno avendo, ma che siano in grado di scrivere hit non credo sia un dato che si possa discutere. Anzi, probabilmente il segreto del loro successo è tutto qui: in un contesto storico dove imperversano Trap, Hip Hop e tutte le varie declinazioni dell’Urban, la quota di musica leggera e popolare influenzata dal cantautorato e contaminata con varie dosi di Rock e Pop, era rappresentata solo da artisti delle passato come Vasco, Ligabue, Cremonini, nomi che non sono più in grado di operare quel ricambio generazionale che li ha tenuti in piedi nei decenni precedenti.

I Pinguini Tattici Nucleari, pur non essendo dei fuoriclasse, sono simpatici, sanno suonare, hanno testi non ricercati ma neppure banali (con una discreta dose di riferimenti letterari che avrà credo obbligato gran parte dei loro fan a ricerche frenetiche su Google) e da quando hanno iniziato a scrivere brani più lineari e maggiormente studiati per funzionare nei contesti mainstream, sono riusciti evidentemente a riempire un vuoto.

Il pubblico, così variegato per età e generalista a livello di look, è lì a dimostrarlo. Ma la sostanza c’è, nonostante la leggerezza di fondo. I bis con “Ringo Starr” (il brano di Sanremo, il primo vero passo verso l’affermazione commerciale) “Scrivile scemo” e la struggente “Pastello bianco” sono una dimostrazione ulteriore che, gusti a parte, le canzoni la band bergamasca le ha eccome.

È stato un bel concerto, al netto di tutti i difetti evidenziati. Per i Pinguini Tattici Nucleari si prospetta un’estate di grandi soddisfazioni ed è tutto assolutamente meritato. L’unica incognita riguarda quanto durerà tutto questo, ma non credo sia il momento di rispondere. In ogni caso, dopo dieci anni di storia, non possono di certo essere considerati una meteora.