Concittadini di Howard Phillips Lovecraft (da Providence, Rhode Island), i Six Finger Satellite (Jeremiah Ryan, voce e tastiere; John MacLean e Peter Phillips, chitarre; Kurt Niemand, basso; Rick Pelletier, batteria), concentrarono in pochi anni le più varie influenze del rock d’avanguardia degli anni Novanta.
L'album si regge su una bizzarra dicotomia: una decina di canzoni dal taglio tradizionale sono intervallate da altrettanti e brevi strumentali senza titolo (a parte la gloria dei quattordici minuti finali); i pezzi cantati sono giocati su una sezione ritmica disciplinata (su cui svetta il basso di Niemand) che fa da contraltare agli slabbratissimi duetti chitarristici e ai deliri alla carta vetrata di Ryan. L'impressione che destano è quella di un incrocio tra i P.I.L., nella loro versione pulsante e nichilista, e gli arabeschi fintamente sbracati della sei corde al servizio di Captain Beefheart (nettamente citato nel blues di “Hi-lo Jerk”); certamente le loro canzoni mancano dell’oppressione paranoide di Jah Wobble e compagnia, e, come atmosfera generale, possono allinearsi, se occorre trovare una contiguità, agli Shellac (tanto che, l’anno seguente, il 7’’ del gruppo di Albini si intitolerà proprio “The Pigeon Is The Most Popular Bird”). “Home For The Holy Day” già lascia intravedere il connubio tra questa ritmica dilavata e i taglienti sferragliamenti di MacLean e Phillips, ma “Laughing Harry” ne è il trionfo, con le chitarre a disegnare ossessivi e lancinanti intrecci su un andamento quasi funky.
A sbalestrare ancor più l'ascoltatore sono gli intermezzi, con Ryan al moog: si parte da brevi siparietti con elementari effetti cibernetici da science-fiction ingenua (“Untitled 1”, “3”) a tirate alla Neu 2 (“Untitled 5” e “13”), dominate dal basso acquatico e puntuale di Niemand, vera anima nera del disco, sino al tripudio finale di “Untitled 21”: una jam cosmica semplice nella struttura, ma affascinante perché accostata a quei dieci episodi di splendido cinismo.
L’intervallo inopinato di “Machine Cuisine” (in cui si lasciano andare ad un incomprensibile quanto scipito synth-pop), è, tuttavia l’incubatrice per il loro capolavoro, Severe Exposure. Le dieci canzoni sono tiratissime ed irruente (mai scomposte, però): esse riecheggiano, a tratti, il ritmo pulsante dell’esordio (“Where Humans Go”), ma le divagazioni tastieristiche intervengono solo per variegare ironicamente il suono (“Parlour Games”, “Cock Fight”); ne guadagna la compattezza dell’opera, sempre serrato ed implacabile (come, ad esempio, in alcuni assalti sonori dei Chrome, di Von Lmo o del nume Steve Albini). Le varie influenze utilizzate (noise, funk, industrial o il semplice rock ‘n’ roll) si compongono felicemente; la versatilità del gruppo, intuita (e, forse, ostentata) in The Pigeon, rimane qui intellettualmente inavvertita e mai invadente. Come nelle vere opere d’arte.