Kornél Mundruczó è un nome pressoché sconosciuto al grande pubblico sebbene Pieces of a woman sia già il suo ottavo lungometraggio. Mundruczó cesella almeno mezz'ora di grandissimo Cinema, maiuscolo, coinvolgente, tesissimo, seguito da un'ora e mezza di elaborazione della perdita in una delle opere più dolorose e sofferenti viste negli ultimi anni. Si apre con circa trenta minuti di piano sequenza durante i quali assistiamo, in maniera compressa ma con il dono della naturalezza, al travaglio e al conseguente parto di Martha (Vanessa Kirby); è un'immersione totale, la sequenza (meravigliosa) risulta carica di tensione, capace di trasmettere tutta l'agitazione, il dolore, la preoccupazione di questo parto pianificato per essere affrontato in casa alla fine del quale qualcosa purtroppo andrà storta, Martha e il suo compagno Sean (Shia LaBeouf) perderanno la loro bambina.
Sean di lavoro costruisce ponti, l'uomo è in agitazione per l'arrivo della sua prima figlia, insieme a Martha hanno deciso di far nascere la bambina in casa con l'aiuto dell'ostetrica Barbara con la quale hanno seguito il corso pre-parto. Quando arriva il momento e Martha rompe le acque, l'ostetrica di fiducia è purtroppo bloccata da un altro impegno, manda così a casa della coppia una collega esperta, Eva (Molly Parker), con la quale Martha porta avanti il travaglio fino alla nascita e alla conseguente morte per insufficienza cardiaca della bambina. Quando i soccorsi dichiarano il decesso della neonata sulla coppia si abbatte un muro di dolore e di sofferenza le cui ripercussioni cadranno prima di tutto su Martha, poi sul futuro della coppia, infine sulla famiglia d'origine di lei che tenterà di rifarsi su Eva.
Pieces of a woman è tanto bello quanto straziante, Vanessa Kirby offre una prova splendida che la porterà senz'altro alle candidature dell'Academy, luminosa e bellissima lungo tutta la durata del parto per poi andare a spegnersi nel dolore dei mesi successivi. La narrazione è cadenzata, l'inquadratura di uno dei ponti sui quali ha lavorato Sean, mese dopo mese, scandisce il tempo, i ghiacci del fiume sottostante si sciolgono mentre l'elaborazione del lutto da parte di Martha matura passo dopo passo, prendendosi tutto il suo tempo, facendosi strada nel dolore di una madre senza più figlia e che pezzo dopo pezzo perde i suoi punti di riferimento, buoni (Sean) o cattivi (la madre Elizabeth) che siano. Mundruczó compie un lavoro incredibile con il piano sequenza iniziale, non solo dal punto di vista tecnico quanto più che altro da quello emotivo, la partecipazione dello spettatore è altissima, quasi insostenibile, minuti memorabili che si stempereranno in una narrazione più classica nella parte restante del film, molto matura anche la prova di LaBeouf ma è la Kirby che compie qualcosa di davvero eccezionale. Seppur didascalico in alcune scelte simboliche (l'acqua appunto, l'ultima scena) la coppia formata da regista e sceneggiatrice (Kata Wéber, compagna di Mundruczó) compone tanti ottimi momenti, esemplare il discorso della madre Elizabeth (Ellen Burstyn, candidatura tra le non protagoniste?) che tenta di scuotere la figlia dal suo dolore rimembrando le sofferenze della nonna perseguitata dai nazisti, o quello del breve resoconto processuale in cui è coinvolta anche l'ostetrica (forse) negligente. La protagonista è chiamata a compiere il suo percorso senza lasciarsi influenzare da tutti gli elementi esterni pronti a dirle, magari a imporle, tramite quali scelte sia meglio affrontare il dolore, ognuno convinto di poter conoscere almeno parte della via verso la guarigione. Come "ha sentito dire" il cognato di Martha, Chris (Benny Safdie), Il tempo guarisce tutte le ferite, banalità, ma che sia davvero questa l'unica medicina per una ferita insanabile?