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REVIEWSLE RECENSIONI
26/02/2025
Horsegirl
Phonetics On and On
Frutto della produzione di Cate Le Bon, il secondo album della band di Chicago riduce l’indie-rock ai minimi termini e ridefinisce il concetto di essenzialità.

Meno è decisamente di più. La sottrazione, in musica, si conferma un atto creativo prima che un necessario istinto di sopravvivenza. Un impeto che non si alimenta necessariamente dell’auto-consapevolezza dell'inadeguatezza tecnica, almeno non sempre. Nell’ampia forbice degli esiti di questo effetto, sopperire a quel poco che si sa suonare con il gusto può dare vita a prodigi di assenza, celebrazioni della privazione del non necessario, culto del riempimento del superfluo con adeguate porzioni di vuoto. Un approccio e un’attitudine, prima che una corrente stilistica, che non coincide affatto con il minimalismo, che - per dirla in modo grossolano - è materia sottile ma così pervasiva da insinuarsi dappertutto. Qui invece rimane lo spazio da cui contemplare l’estro, con tutti i riverberi che il vuoto comporta.

La musica delle Horsegirl è una riduzione ai minimi termini dell’indie rock anni 90. Un concentrato, attenzione, mica un surrogato. Perché alle canzoni di Phonetics On and On proprio non manca nulla. C’è la batteria, un set essenziale suonato con una precisione metronomica ma senza un colpo superfluo. Ci sono giri di basso sobri ma efficaci e a loro modo trascinanti. Ci sono chitarre asciutte e riff concisi che lasciano comunque il segno. E le melodie sono cantilene, scioglilingua, lallazione. I testi, poi, non ne parliamo. La prova provata che la musica è principalmente mentalità, è cosa intendi per musica. Non importa come sai suonare ma l’atteggiamento a cui muove l’essere umano l’avere uno strumento a tracolla.

Tra le righe di Phonetics On and On emergono i più diffusi cliché di quel  genere lì. Il contegno svogliato, il distacco dissimulato, la staticità dei corpi volutamente in contrasto con l’impeto che suscita la danza quando la musica ti prende, in questo caso fuori discussione perché il cliché impone proprio che la musica non ti prenda mai, la catatonia espressiva e certe posture stesse esaltate al ribasso da un abbigliamento talmente di scarto (tutt’altro che indecoroso) da fare il giro.

Anche senza guardare i loro video, indovinare tutto questo partendo dalla musica e lasciandosi condizionare dai facili biechi pregiudizi che riguardano questo genere di progetti musicali, è scontato. Tutto ciò che chi apprezza la musica rock suonata secondo metodi universalmente riconosciuti come standard detesta. L’outfit fai da te, lo sguardo indolente, come a dire che lì, nei video e nel successo, mica ci vorrebbero stare. 

Ma poco importa. La storia di Nora Cheng, Penelope Lowenstein e Gigi Reece la conosciamo. Tre migliori amiche tra di loro che hanno costituito una band. Nel primo disco erano liceali a Chicago. Ora frequentano l’università a NYC. Basta questo, un contratto con la Matador e una produzione di Cate Le Bon a farle sentire musiciste davvero cool. In studio e sul palco dimostrano di saper giocare con la sperimentazione e si esprimono con uno stile in grado di rendere al meglio la naturalezza con cui scrivono le loro canzoni.

È per questo che le tracce di Phonetics On and On non potrebbero esser state composte che dalle Horsegirl. Intrecci e arrangiamenti deliziosamente elementari che fanno da background a una sorprendente laconicità delle liriche, talvolta frasi ripetute uguali lungo il brano o semplici coretti che scandiscono i ritmi e i passaggi scelti per restituire alla meglio il vissuto di tre ragazze musiciste, nel pieno della loro giovinezza. Il meglio della loro vita, la vita nel momento migliore, e ovviamente l’amore. Il tutto reso con la tenerezza, l’ingenuità e l’immediatezza di chi si affaccia con personalità nel mondo dell’arte. Phonetics On and On, rispetto al disco d’esordio, risulta un passo in avanti verso la maturità, una scelta tutt’altro che improvvisata di farsi rappresentare da uno stile che, fortunatamente, non passa mai di moda.