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MAKING MOVIESAL CINEMA
Philip K. Dick's Electric Dreams
Roonald D. Moore / Michael Dinner
2017  (Channel 4)
SERIE TV
all MAKING MOVIES
14/11/2017
Roonald D. Moore / Michael Dinner
Philip K. Dick's Electric Dreams
I presupposti erano decisamente positivi: un canale televisivo che possiede il pedigree per operazioni così singolari e antologiche, una produzione che non ha lesinato nell’investimento economico, attori nella maggior parte dei casi di prima se non di primissima fascia
di Simone Nicastro

Philip K. Dick's Electric Dreams – Prima parte della Season One

Philip K. Dick è stato uno scrittore fenomenale, ritengo sia importante ripeterlo in qualsiasi contesto possibile. Non avrà avuto la fantasia immaginifica di un Asimov, la conoscenza scientifica di un Clarke o la prosa cinematografica di un Matheson, ma la sua capacità di immaginare una narrativa sempre in bilico tra mistero e psicologia, tra tecnologia e filosofia, tra realtà e finzione, tra le tante domande fondamentali dell’uomo e solo qualche indispensabile risposta, ha ben pochi rivali nella storia della letteratura fantascientifica (e non solo).

L’opera di Philip K. Dick però è stata ed è tutt’ora oggetto di una grande illusione da parte di Hollywood e del mondo del cinema in generale: l’illusione che i suoi racconti e i suoi romanzi siano perfettamente adeguati a trasposizioni cinematografiche adatte al grande pubblico e dal sicuro successo, anche e soprattutto a causa dello stato di “cult dei cult” raggiunto dal film “Blade Runner” nel corso degli ultimi 35 anni e tratto proprio da un romanzo dell’autore: “Il cacciatore di androidi”.

La realtà invece è che nella maggior parte dei casi successivi l’esito è stato ben distante dai risultati straordinari ottenuti dal film di Ridley Scott, non solo per demerito di alcune produzioni evidentemente scadenti, ma a causa dell’estrema difficoltà di riprodurre sul grande schermo le peculiarità e la profondità di queste vere e proprie indagini sull’essere umano e tutto quello che lo riguarda, in qualsiasi epoca, futuro o ipotetica fantasia egli sia stato introdotto e raccontato dallo scrittore.

Perdonerete, mi auguro, questa mia lunga premessa ma ho ritenuto fosse necessaria per argomentare in modo più compiuto il motivo per cui l’attesa nuova series tv “Philip K. Dick's Electric Dreams” di Channel 4, canale televisivo britannico che ha dato i natali al successo planetario di “Black Mirror”, mi ha decisamente deluso, nonostante non si tratti in questo caso di un film ma di un’opera per il piccolo schermo. Mi ha deluso almeno per quanto riguarda i primi sei episodi della serie (gli ultimi quattro, a completamento della stagione, non andranno in onda se non nel prossimo anno).

I presupposti erano decisamente positivi: un canale televisivo che possiede il pedigree per operazioni così singolari e antologiche, una produzione che non ha lesinato nell’investimento economico, attori nella maggior parte dei casi di prima se non di primissima fascia e evidentemente il mare magnum di idee dello scrittore americano da cui attingere.

Fin dal primo episodio “The Hood Maker" si è intuito che qualcosa però strideva: non tanto per i cambiamenti in fase di sceneggiatura rispetto al racconto originale (questi aggiustamenti saranno presenti in tutti i sei episodi e del resto le modifiche sono perfettamente comprensibili se non in parte necessarie in operazioni di questo tipo) ma per un allontanamento abbastanza radicale dal tema sociologico e razziale dello scritto per concentrarsi su una visione più “romance” e meno caratteristica delle dinamiche tra i protagonisti. Nonostante l’impegno degli attori (soprattutto una convincente Holliday Grainger) e una allestimento futuribile credibile (grazie al lavoro ottimale di luci e ombre) la storia è risultata appiattita e “quelle domande fondamentali” tipiche di Dick, se pur poste, non sono mai state il cuore dell’episodio.

Questi difetti si ripeteranno, in diversa misura e gravità, in quasi tutti gli episodi successivi: "Impossible Planet" non riesce a sostenere adeguatamente la parabola del viaggio nello spazio verso il sogno (raccontato e immaginato) così metaforicamente simile ed emozionale a quella che invece nasce e si evolve a partire dai ricordi (personali e fantasticati) optando purtroppo per uno sguardo e una sviluppo ellittico di spirito “new age” e poco significativo; "The Commuter", con un sempre bravissimo Timothy Spall, si dilunga invece in divagazioni poco equilibrate e funzionali sulla realtà alternativa rappresentata indebolendo di molto il tema del bivio esistenziale del protagonista con da una parte una possibile nuova esperienza di gioia artificiale e selettiva e dall’altra parte una accettazione avvilente della proprio passato e della vita quotidiana con le sue esigue ma irrinunciabili felicità.

“Crazy Diamond”, quarto episodio ad essere andato in onda, rappresenta la più cocente delusione del sestetto: Steve Buscemi e Julia Davis (cast stellare) sono stati sprecati in una messinscena che si smarrisce tematicamente e visivamente dentro mutazioni genetiche, anime sintetiche, disastri climatici e una esistenza/sopravvivenza in contrapposizione alla lenta ed inevitabile disgregazione dell’essere (umano, pseudo-umano e terrestre). Tutto diventa un puro divertissement grottesco e saturo (di colore) in cui si fatica ad arrivare alla fine per non parlare della mancanza totale del nesso con il racconto originario “Sales Pitch”.

Quando le speranze sembrano perse del tutto, la serie ha avuto un colpo di coda con un episodio molto riuscito e coinvolgente. “Real Life” è puro Philip K. Dick sia nella costruzione delle personalità dei suoi protagonisti, una Anna Paquin perfetta nella sua imperturbabile emozionalità e un Terrence Howard sorprendente per empatia e controllo scenico, sia nel percorso tragico ed esistenziale derivante dall’opzione “impossibile” di decidere e accettare ciò che esiste, ciò che sembra esistere e soprattutto ciò che ci meritiamo davvero (o crediamo di meritarci).

Infine l’ultimo episodio trasmesso ad oggi, “Human Is”, ha riportato sul piccolo schermo l’amatissimo Bryan Cranston in compagnia di una efficace Essie Davis per una storia che si perde rapidamente, nonostante la bellissima rappresentazione scenica, in uno sviluppo troppo frammentario e incapace di focalizzare in maniera convincente il tema fondamentale di quale ragionamento, attività, istintività o affettività ci determina compiutamente come razza umana. Ad essere sinceri in questo caso non proprio tutto risulta da cestinare ma si ha comunque l’impressione di precarietà e poca coscienza di quanto si sta realizzando.

In ultima analisi il grande dispiacere nella visione di questa prima parte della stagione della serie è stato lo spreco di ottime idee (impossibile non fermarsi a riflettere su quanto viene raccontato di volta in volta), di contesti scenografici elaborati ed efficaci e soprattutto di oggettivi talenti attoriali. Per fortuna la particolarità ineluttabile di una serie antologica è quella di poter sempre sorprendere al prossimo episodio.

P.S. Sempre da un’opera di Dick è stata realizzata negli scorsi anni un’altra serie televisiva che invece vi consiglio vivamente: “The Man in the High Castle”.