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REVIEWSLE RECENSIONI
Petty Country: A Country Music Celebration of Tom Petty
AA.VV.
2024  (Big Machine Records)
AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS
7,5/10
all REVIEWS
05/07/2024
AA.VV.
Petty Country: A Country Music Celebration of Tom Petty
La musica country ha sempre fatto parte del dna di Tom Petty, come dimostra “Petty Country: A Country Music Celebration of Tom Petty”, un riuscito album tributo con Dolly Parton, Willie Nelson, Chris Stapleton, Luke Combs, Dierks Bentley, Lainey Wilson, Brothers Osborne e tanti altri.

La musica country ha sempre fatto parte del dna di Tom Petty. Ancora prima dei Mudcrutch e degli Heartbreakers, Petty suonava canzoni country in quelli che in seguito avrebbe descritto come «veri bar della Florida», cercando di guadagnarsi da vivere come artista emergente. Lo ha raccontato lui stesso a Paul Zollo nel libro Conversations with Tom Petty: «[La folla] era sempre un po’ stranita da noi, perché avevamo i capelli lunghi e suonavamo musica country. E questo era del tutto inaudito a quei tempi».

Una volta diventato famoso, Petty ha continuato a frequentare il country, collaborando con Carl Perkins, Johnny Cash (gli Heartbreakers sono stati la backing band di Cash in Unchained), June Carter Cash, Marty Stuart, John Prine, Dolly Parton, Tammy Wynette, George Strait, Hank Williams Jr. e Willie Nelson, dedicando anche un intero album (Southern Accents, 1985) alle sue radici southern (Petty era nato a Gainsville, in Florida).

 

«Siamo tutti cresciuti nel Sud e siamo stati immersi nella musica di Hank Williams e George Jones che sentivamo alla radio», ha raccontato recentemente l’Heartbreaker Mike Campbell a Rolling Stone. «Abbiamo tutti amato i Flying Burrito Brothers e i Byrds quando sono diventati country [in Sweetheart of the Rodeo]. Ascoltavamo un sacco di country, e un po’ di questo si è insinuato nella nostra coscienza». Cresciuto con le canzoni di Carl Perkins, Conway Twitty e Loretta Lynn, a dire il vero negli ultimi anni Petty aveva sollevato qualche critica nei confronti del country moderno. Nel 2013, durante un concerto al Beacon Theater di New York, prima di eseguire una cover di “Friend of the Devil” dei Grateful Dead, aveva detto che la musica country che amava non era «come quella di oggi, del pessimo rock con il violino», mentre a Rolling Stone aveva dichiarato: «Odio generalizzare su un intero genere musicale, ma sembra che gli manchi quell’elemento magico che aveva un tempo. Sono sicuro che ci sono persone che suonano country e lo fanno bene, ma non ricevono l’attenzione che riceve la roba più scadente. Ma è sempre così, no?».

 

 

Non è un segreto che – molto più che in altri generi – una buona canzone country si basi innanzitutto sul songwriting. E, come dimostrato dalla raccolta postuma An American Treasure, dedicata ai pezzi meno conosciuti del suo vasto catalogo, ben pochi possono vantare la capacità di scrittura di Tom Petty. Una volta pubblicata, «tutti si sono resi conto che era un grande autore», ha detto l’amico produttore George Drakoulias. «Volevamo celebrarlo come autore e sapevamo che amava la comunità di Nashville e il suo impegno nell’arte del songwriting».

L’idea di realizzare un album tributo nasce proprio in quel momento, nel 2018, e sei anni dopo finalmente vede la luce con il titolo Petty Country: A Country Music Celebration of Tom Petty. Il progetto coinvolge più di venti tra i più importanti artisti dell’industria musicale di Nashville, una scena che si è profondamente rinnovata rispetto a quella che Petty criticò più di dieci anni fa.

 

Uno dei motori di questo cambiamento è stato senza dubbio l’affermazione di Chris Stapleton. Nel 2013 Stapleton non era ancora la superstar del contry che è oggi, ma si limitava a sbarcare il lunario scrivendo canzoni per conto terzi. Dopo aver letto le parole di Petty su Rolling Stone – di cui era grandissimo fan –, Stapleton prese carta a penna e indirizzò al leader degli Heartbreakers una lettera aperta: «Credo che si possa dire che la maggior parte degli artisti country moderni, me compreso, ti considerino un’influenza. I tuoi recenti commenti mi fanno pensare che tu veda margini di miglioramento nella musica country moderna. Per quanto mi riguarda, vorrei che ti impegnassi concretamente. Quindi, nell’interesse di rendere la musica country meno “di merda” (parole tue), propongo una collaborazione. Ti sto estendendo un invito aperto a scrivere canzoni con me, a produrre registrazioni su o con me, o comunque a partecipare in qualsiasi modo tu ritenga opportuno al mio piccolo angolo di musica. Nel caso in cui leggessi queste righe e fossi interessato, cercami».

 

Tom Petty non fece in tempo ad accettare l’offerta, e così Chris Stapleton non ha mai realizzato il suo desiderio di collaborare direttamente con quello che ha sempre definito il suo eroe («Posso dire con certezza che nessun’altra influenza musicale è così presente nella mia mente»), ma nel 2017 Petty lo scelse come opener nel suo ultimo tour. Stapleton aveva già pubblicato Traveller (2015), un lavoro così popolare e influente che ha spostato il country mainstream in una direzione più radicale, aprendo lo spazio per artisti come Tyler Childers e Colter Wall che, se solo avesse potuto ascoltarli senza dubbio Petty avrebbe amato.

 

Ed è proprio Chris Stapleton con “I Should Have Known It” ad aprire Petty Country: A Country Music Celebration of Tom Petty. Con il suo riff alla Jimmy Page, la canzone era uno dei singoli di punta del sottovalutato Mojo del 2010. Molto amata da Petty, è stata suonata molto spesso dal vivo negli ultimi tour degli Heartbreakers, Stapleton ne fa una cover estremamente fedele all’originale e il pezzo si rivela una scelta azzeccata, capace di esaltare la sua vocalità, a cavallo tra blues e soul.

 

 

Se a Stapleton va il merito di aver portato una ventata d’aria fresca nella musica country moderna, l’onore di aver reso possibile questo tributo a Tom Petty va dato ai veterani della scena di Nashville Dolly Parton e Willie Nelson. Sono stati proprio loro i primi a essere contattati dai curatori George Drakoulias, Randall Poster e Scott Borchetta. Una volta che questi due pesi massimi hanno accettato di partecipare, è stato più facile ricevere una risposta affermativa dagli altri artisti. «Avere Willie e Dolly ha fatto sì che la gente si alzasse in piedi e prestasse attenzione», ha confessato Darkoulias.

 

Grazie all’eterogeneità degli artisti coinvolti, Petty Country permette di avere un quadro tutto sommato completo dell’impressionante catalogo di Petty. C’è chi pesca dal capolavoro Wildflowers, come Thomas Rhett, che esegue la title track in modo dolce e solare, o l’icona George Strait, che chiude il disco con una versione live di “You Wreck Me” in perfetta aderenza con il proprio universo sonoro. Il disco più rappresentato è – ben poco sorprendentemente – il blockbuster di fine anni Novanta Full Moon Fever, da cui provengono ben quattro pezzi su venti. Luke Combs riproduce quasi fedelmente “Runnin’ Down a Dream”, così come fanno i Brothers Osborne con “I Won’t Back Down” – ma va detto che il sound creato oltre trentacinque anni fa da Jeff Lynne sembra cucito apposta per entrambi gli artisti. I The Cadillac Three e Breland offrono una versione talmente educata di “Free Fallin’” (forse la canzone di Petty più coverizzata, ne esistono versioni di Steve Nicks e John Mayer) che sembra uscita da Glee, mentre Steve Earle ci regala una riuscita interpretazione di “Yer So Bad” in chiave bluegrass.

 

 

Se gli artisti coinvolti hanno la giusta dose di gusto e coraggio, un album come Petty Country offre all’ascoltatore casuale la possibilità di scoprire alcune tra le canzoni meno conosciute dell’artista tributato. Margo Price in questo senso è bravissima a recuperare una chicca come “Ways to Be Wicked”, che Petty scrisse nei primi anni Ottanta con Mike Campbell e che in seguito diede ai Lone Justice, non prima di aver provato a registrarne una sua versione con gli Heartbreakers durante le sessioni di Let Me Up (I’ve Had Enough) – il provino è poi finito nel box set Playback, nella sezione Nobody’s Children.

 

Non scontata neanche la scelta di Rhiannon Giddens – che di recente ha suonato il banjo e la viola in “Texas Hold ‘Em” di Beyoncé – che si cimenta sì con “Don’t Come Around Here No More” (che con il suo iconico video è stata una presenza fissa della programmazione di MTV nella metà degli anni Ottanta), ma porta la canzone nel suo mondo, spogliandola di tutte le propaggini elettroniche e psichedeliche dovute alla produzione (ormai datata?) di Dave Stewart per rivestirla invece di suggestioni creole.

 

Azzeccate anche le canzoni selezionate da Willie Nelson, che con il figlio Lukas reinterpreta “Angel Dream No. 2” dal dimenticato Songs and Music from the Motion Picture “She’s the One”, e Jamey Johnson, che si cimenta con una dolente “I Forgive It All”, originariamente inclusa in Mudcrutch 2, l’ultimo disco inciso in vita da Petty. In entrambi i casi i pezzi calzano a pennello agli artisti che li hanno scelti, due fuorilegge del country che prendono in prestito le parole di Petty per riflettere sulla propria vita.

 

 

E a proposito di riflessione, forse il brano centrale del disco è la rivisitazione a opera di Dolly Parton di “Southern Accents”, una canzone che Petty incise poco più che trentenne ma che ha iniziato a calzargli a pennello solo nell’ultima parte della carriera, quando si stava avvicinando ai sessanta, come testimonia la splendida versione inclusa nella racconta The Live Anthology del 2009. Che la canzone avesse potenziale, Petty lo aveva saputo sin da quando l’aveva scritta («Potrebbe essere la mia preferita tra le mie canzoni»), ma la svolta è arrivata solo nel 1996, quando Johnny Cash l’ha inclusa in Unchained, portandola in un’altra dimensione, dando al pezzo una profondità che solo chi ha tante cicatrici e una lunga vita alle spalle è capace di dare.

 

Ed è proprio quello che fa Dolly Parton con questa sua versione, che prende l’originale orchestrazione di Jack Nitzsche (il braccio destro di Phil Spector) e la trasforma in un’impetuosa ballata country alla “The Long and Winding Road”. Su tutto, svetta la performance vocale di Parton, che riesce trasforma una canzone di vendetta e risentimento in un’elegia alla resilienza, interpretata con la grazia e la compostezza di un’aristocratica del Sud. «Quando Tom ha registrato quella canzone, ha usato una sorta di ringhio di sfida», ha detto Drakoulias a Rolling Stone. «Stava difendendo il Sud ed era molto emotivo perché l’aveva scritta subito dopo la morte di sua madre. La versione di Dolly è più signorile, più incentrata sugli alberi di magnolia, e la sua performance vocale spacca». (Parton ha anche aggiunto alcuni versi di suo pugno a fine canzone: «Yes I’m proud of who I am/A Southern girl from a Southern town/I ain’t ashamed/I ain’t ashamed/I ain’t ashamed/No, I ain’t»).

 

 

Come spesso capita nei dischi tributo, ci sono reinterpretazioni che centrano il bersaglio e altre meno, come quando l’artista di turno si limita a eseguire una copia carbone dell’originale. Per cui vale la pena sottolineare il lavoro svolto da Wynonna Judd e Lainey Wilson, che riescono a marcare con le loro personalità un pezzo complesso come “Refugee”, trasformandolo in un potente duetto; e complimenti anche ai Lady A, che rifanno con sicurezza una canzone famosissima come “Stop Draggin’ My Heart Around”, scritta da Petty per Stevie Nicks nel 1981 e apparsa nel suo album solista Belladonna.

 

E se Justin Moore con “Here Comes My Girl” e Ryan Hurd e Carly Pearce con “Breakdown” ci ricordano quante frecce avesse al suo arco Tom Petty come songwriter, è bello sentire Dierks Bentley rendere onore a una canzone così iconica come “American Girl”. La sua versione è in continuità con il sound sbarazzino del suo ultimo lavoro, Gravel & Gold, con il banjo, il mandolino e la chitarra elettrica (tra l’altro, una delle Rickenbacker originali di Tom) a fondersi perfettamente con la sua voce ruvida. Ottima anche la “I Need to Know” di Marty Stuart & His Fabulous Superlatives – ma per Marty si tratta di un ritorno sul luogo del delitto («Penso che Tom Petty e gli Heartbreakers siano stati la più grande rock & roll band che gli Stati Uniti d’America abbiano mai prodotto»), dal momento che da anni “Runnin’ Down a Dream” fa parte del suo repertorio live e nel suo ultimo album, Songs I Sing in the Dark, è presente una cover di Petty (“Fault Lines”, da Hypnotic Eye del 2014).

 

 

Ora che Petty Country è nei negozi, la Petty Legacy, diretta dalla figlia maggiore Adria, sta rivolgendo la sua attenzione a un cofanetto dedicato a Long After Dark, di cui è prevista la pubblicazione in autunno. Uscito nel novembre del 1982, il disco è il primo di una serie (che include Southern Accents e Let Me Up [I’ve Had Enough]), dove, da un punto di vista puramente artistico – il successo di pubblico, invece, non aveva mai smesso di sorridergli –, la classica formula rock proposta da Tom Petty e i suoi Heartbreakers stava iniziando ad avere bisogno di una rinfrescata (e il primo a esserne consapevole era proprio Tom). In questo periodo, Petty iniziò a scrivere molte più canzoni di quante ne avesse realmente bisogno per completare un album, tanto che sia Southern Accents sia Let Me Up (I’ve Had Enough) sono sempre stati considerati dai suoi fan come dei doppi album mancati. Il materiale non utilizzato ha visto la luce prima nel box set Playback e poi nella raccolta di rarità An American Treasure.

 

Come ha ricordato l’amico produttore George Drakoulias: «Ho lavorato al cofanetto Playback. Scherzando gli dicevo: “Come ti è venuto in mente di lasciare fuori questa canzone?”», a testimonianza di come la qualità del songwriting di Tom Petty fosse sempre di altissimo livello. Ed è proprio per questo motivo che Petty Country è il perfetto tributo a un autore la cui arte – visto il vasto successo raggiunto, l’onnipresenza nelle classifiche e il costante airplay nelle radio americane – magari è stata a lungo data per scontata, ma ora che può essere valutata nel suo complesso, è tranquillamente paragonabile a quella di giganti come Bob Dylan e Bruce Springsteen.